Il simbolo del teschio è onnipresente. Non ho la minima idea di cos’abbia indotto quel cronista a ritenere che questo luogo fosse occupato da «monaci» di fede cristiana; il ritaglio che ha Eli parla di «combinazione di stile paleocristiano e di presumibili motivi aztechi», e l’influsso azteco si vede chiaramente, ma quello cristiano dov’è? Qui non ci sono croci, né vetrate colorate, né immagini dei santi o della Sacra Famiglia, né altri oggetti consimili. La natura di questo luogo è pagana, primitiva, preistorica: potrebbe essere il tempio di un antico dio messicano, o addirittura di una divinità dell’uomo di Neanderthal. Comunque Gesù è assente, o io non sono più un bostoniano di origine irlandese.
Forse questa pulita e fredda e austera ricercatezza ha dato al cronista l’impressione di trovarsi in un monastero medioevale (gli echi, i silenziosi corridoi nei quali sembrano risuonare solenni canti gregoriani); ma senza simbolismo del cristianesimo non può esserci cristianesimo, e i simboli qui esposti sono di tutt’altro genere.
L’effetto complessivo è di un lusso bizzarro unito a un’enorme povertà stilistica: tutto è ridotto al minimo essenziale, ma un senso di potere e grandezza emana ugualmente dalle pareti, dai pavimenti, dagl’interminabili corridoi, dalle nude stanze, dall’arredamento severo e spoglio.
La pulizia è tenuta chiaramente in grande considerazione. L’impianto idraulico è straordinario, con fontane zampillanti disseminate nelle «stanze pubbliche» e nei corridoi più grandi. La mia stanza possiede un’ampia vasca incassata, rivestita di elegante ardesia verde, che potrebbe andar bene per un maharaja o per un Papa del Rinascimento.
Assegnandomi la stanza, Fra Antonio ha detto che se volevo fare il bagno potevo usare liberamente la vasca. La sua garbata affermazione aveva la forza di un ordine. Non che avessi bisogno di essere esortato: la scarpinata nel deserto mi aveva penosamente coperto di sporcizia.
Mi sono concesso una lunga e voluttuosa insaponata, dimenandomi sulla liscia ardesia; e quando ne sono uscito ho scoperto che i miei panni luridi e sudati erano scomparsi, compresi perfino gli stivali. Al loro posto ho trovato sul mio letto un paio di calzoni corti, di aspetto consunto ma puliti, simili a quelli che indossava lo stesso Fra Antonio.
Benissimo; qui, a quanto pare, il precetto filosofico essenziale è: meno si ha, più si ha. Diamo l’addio a camicia e mutande; mi abituerò ad avere addosso soltanto i calzoni sui lombi nudi. Siamo arrivati in un posto davvero interessante.
Rimane comunque da risolvere il problema numero uno: questo luogo ha qualche correlazione col manoscritto medioevale scovato da Eli e col preteso culto dell’immortalità? Io credo di sì, ma non posso ancora esserne sicuro.
Ho dovuto proprio ammirare l’abilità istrionica del frate, il modo mirabilmente ambiguo in cui si è tolto dall’imbarazzo quando Eli ha accennato al Libro dei Teschi. Il Libro dei Teschi? Cosa sarà mai, questo Libro dei Teschi? E via che è uscito, così riprendendo subito le redini della situazione.
Davvero non sapeva nulla del Libro dei Teschi? Ma allora perché è apparso tanto scosso, anche se solo per un attimo, quando Eli l’ha nominato? Possibile che sia soltanto una coincidenza, questa passione per il simbolo del teschio? Che il Libro dei Teschi sia stato dimenticato dai suoi stessi seguaci? Che il frate abbia voluto giocare con noi come il gatto col topo, per gettarci nell’incertezza? L’estetica del tormento psichico: quanta arte si basa su questo principio! E così saremo tormentati per un po’.
Vorrei andare a parlare con Eli, nella sua stanza lungo il corridoio. Lui ha una mente agile, sa interpretare molto bene le sfumature. Desidero sapere se è rimasto perplesso per la risposta di Fra Antonio alla sua affermazione. Ma suppongo che dovrò attendere, prima di poter parlare con Eli: solo ora mi accorgo che la porta della mia stanza è chiusa a chiave.
24
Timothy
Roba da matti! Quel corridoio lungo un chilometro. Quei teschi dappertutto, la maschera di morte nello stile messicano. Figure scorticate e che tuttavia riescono ancora a sogghignare, facce con spilloni infilzati nella lingua e nelle guance, corpi con carne sotto e teschio sopra. Delizioso. E quel vecchio dall’aria arcana, con una voce che sembra uscire da una macchina. Quasi quasi penso che sia una specie di robot. Non può essere un uomo vero, con quella pelle soda e liscia, quel cranio calvo che dà l’idea di non aver mai avuto un solo capello, quegli occhi così lucenti.
Almeno il bagno era buono. Mi hanno portato via gli abiti, però. E anche il portafoglio, le carte di credito, tutto. Questo mi garba poco, anche se immagino che in un posto come questo non possano fare molto con i miei averi. Forse hanno solo intenzione di lavare i nostri panni insudiciati dal deserto. Comunque non mi dà fastidio dover indossare questi calzoncini. Un po’ stretti sui fianchi, forse (immagino di essere più grosso dell’ospite medio del monastero), ma con questo caldo va benissimo ridurre il vestiario.
Quello che mi dà fastidio, invece, è che mi hanno chiuso a chiave nella mia stanza. Mi ricorda troppi film dell’orrore visti alla tele. Ora si aprirà nel pavimento uno sportellino segreto e ne scivolerà fuori il cobra sacro, sibilando e schizzando. Oppure entrerà un gas velenoso, grazie a un ventilatore nascosto.
Naturalmente non faccio sul serio. Non penso proprio che abbiano intenzione di farci del male. Tuttavia è pur sempre una cosa offensiva, per un ospite, trovarsi rinchiuso nella propria stanza. Che sia l’ora di una preghiera particolare e non vogliano che noi li interrompiamo? Potrebbe essere. Aspetterò un’ora, poi tenterò di forzare la porta. Sembra abbastanza solida, però: una tavola di legno bella grossa e robusta.
Niente televisori, in questo motel. Niente da leggere, tranne questo libriccino che hanno lasciato per terra accanto al mio letto. Ed è una cosa che conosco già. Il Libro dei Teschi, nientemeno. Scritto a macchina, in tre lingue: latino, spagnolo, inglese. Sulla copertina, un’allegra decorazione: teschio e ossa incrociate. Ma la cosa non mi diverte, in realtà. E dentro c’è tutta la robaccia che Eli ci ha letto, quella melodrammatica fesseria sui diciotto Misteri. Lo stile è diverso dalla sua traduzione, ma il significato è lo stesso. Tante chiacchiere sulla vita eterna, ma anche tante chiacchiere sulla morte. Troppe. Vorrei proprio andarmene via sempre che una volta o l’altra vengano ad aprire la porta. Uno scherzo è uno scherzo, e forse il mese scorso mi è parsa divertente l’idea di questa spedizione agli ordini di Eli; ma adesso che mi trovo qui non riesco a capire che cosa mi abbia indotto a dare il mio assenso.
Se costoro fanno sul serio, del che continuo a dubitare, non voglio aver niente da spartire con loro; e se sono soltanto una banda di fanatici pseudoreligiosi, il che mi sembra molto probabile, lo stesso non voglio aver niente da spartire con loro. Ho già passato due ore, qui, e mi sembrano più che sufficienti. Tutti questi teschi mi fanno venire la mosca al naso. E anche la faccenda della porta chiusa a chiave. E quel vecchio dall’aria arcana.
Ragazzi, adesso basta! Timothy è pronto a tornare a casa.
25
Eli
Continuo a ripetere fra me e me il breve scambio di parole con Fra Antonio, ma non vengo a capo di nulla. Mi ha voluto prendere in giro? Ha fatto finta di non sapere? Ha fatto finta di sapere una cosa che in realtà non sa? Il suo era il sorriso astuto dell’iniziato? Oppure lo sciocco ghigno del bluff?