È possibile, mi dico, che costoro conoscano con altro nome il Libro dei Teschi. Oppure che nel corso della migrazione dalla Spagna al Messico e poi all’Arizona la loro simbologia teologica abbia subito qualche rimaneggiamento fondamentale. Comunque io sono sempre convinto che questo luogo deve per forza essere il diretto discendente del monastero catalano in cui è stato redatto il manoscritto da me scoperto.
Faccio il bagno. Il più fantastico della mia vita: l’acme, il nonplusultra dei bagni.
Quando esco da quella vasca sontuosa trovo che i miei vestiti sono scomparsi e che la porta della mia stanza è chiusa a chiave. Indosso gli stinti, consunti e stretti calzoncini che qualcuno mi ha lasciato.
E aspetto. Aspetto. Niente da leggere; niente da guardare tranne una bella maschera in pietra che raffigura un teschio dagli occhi sporgenti, tutta rivestita di mosaico, un’infinità di frammenti di giada, madreperla, ossidiana, turchese: un capolavoro, un pezzo di valore inestimabile.
Comincio a pensare se non sia il caso di fare un secondo bagno, tanto per ammazzare il tempo. Poi la porta si apre (non sento il rumore della chiave né lo scatto della serratura) ed entra qualcuno che alla prima occhiata sembra Fra Antonio. Una seconda occhiata mi dice che si tratta di un altro: un filo più stretto di spalle, un filo più alto, un filo più chiaro di pelle, ma per il resto l’identico tozzo e robusto fisico pseudopicassoide cotto dal sole.
Con una singolare voce silenziosa, felpata, una voce alla Peter Lorre, mi dice: — Sono Fra Bernardo. Andiamo, prego.
Il corridoio sembra allungarsi a mano a mano che lo percorriamo. Piedi nudi sulla pietra levigata del pavimento: che sensazione magnifica! Fra Bernardo mi precede, e i miei occhi indugiano sulla sua singolarissima colonna vertebrale, sporgente come una cresta ossea.
Misteriose porte chiuse, in legno riccamente lavorato, si susseguono su entrambi i lati del corridoio: stanze, stanze, stanze, stanze. Alle pareti è appeso un milione di dollari in grotteschi, misteriosi manufatti messicani. Tutte le divinità degl’incubi mi sbirciano con i loro occhi da gufo. Le luci sono spente, e un morbido chiarore giallastro piove da candelabri a muro ampiamente intervallati, a forma di teschio: un altro piccolo tocco melodrammatico.
A un certo punto quando ormai siamo quasi arrivati alla sezione centrale dell’edificio (la base della U), l’occhio mi sfugge oltre la spalla destra di Fra Bernardo e io colgo la rapida e stupefacente visione di un’inconfondibile figura femminile, un dodici o quindici metri più avanti. La vedo uscire dall’ultima stanza di quest’ala del dormitorio, attraversare lenta il corridoio — sembra quasi aleggiare al disopra del pavimento — e sparire nella sezione centrale.
Bassa, snella, indossa una specie di miniabito attillato che le arriva a malapena alla coscia, fatto di una morbida stoffa bianca a pieghine. I capelli sono neri e lucidi, veri capelli latini, e le ricadono fin sotto le spalle. La carnagione, fortemente abbronzata, costituisce un violento contrasto con l’abito bianco. I seni sporgono in maniera spettacolare: non ci sono davvero dubbi circa il sesso. La faccia non riesco a vederla bene.
Sono stupito che in questa Casa dei Teschi ci siano anche suore, oltre che frati; ma forse quella donna è una fantesca, data la pulizia impeccabile che c’è dappertutto. So già che non servirebbe a nulla interrogare su di lei Fra Bernardo: lui indossa il silenzio come altri potrebbero indossare un’armatura.
Ora il frate m’introduce in una grande stanza che giudico un locale da cerimonie; evidentemente non è quella in cui ci ha accolti Fra Antonio, poiché non scorgo tracce della botola che dà accesso alla galleria sotterranea. La fontana è diversa: la conca è più alta, più a forma di tulipano, mentre la figura dalla quale zampilla l’acqua è molto simile a quella della fontana dell’altra stanza. Dalla travatura del soffitto piove la luce obliqua del pomeriggio avanzato. L’aria è ancora calda, ma non soffocante come prima.
Ned, Oliver e Timothy sono già presenti, anche loro con addosso solo i calzoncini, tutt’e tre con un’aria tesa e incerta. Oliver ha quel suo caratteristico sguardo vitreo che gli sopraggiunge nei momenti di forte tensione. Timothy sta cercando di apparire annoiato, ma non ci riesce. Ned mi lancia una rapida ammiccatina, forse di congratulazione o forse di scherno.
Nella stanza ci sono anche una decina di frati.
Sembrano ricavati tutti dallo stesso stampo: se non sono fratelli in senso letterale, devono essere almeno cugini. Nessuno di loro è più alto di un metro e settanta, e alcuni sono sul metro e sessanta o anche meno. Calvi. Petto ampio. Abbronzati. Aspetto ben conservato. Indossano soltanto i soliti calzoncini. Uno, che mi sembrerebbe Fra Antonio (così risulta poi, infatti), porta sul petto un piccolo ciondolo verde; l’hanno anche tre degli altri, ma in una pietra più scura, forse onice. La donna che ha attraversato il corridoio non è presente.
Fra Antonio mi fa segno di andare a mettermi accanto ai miei compagni. Mi sistemo di fianco a Ned.
Silenzio. Tensione. L’impulso di scoppiare a ridere, che a malapena riesco a reprimere.
Com’è assurdo, tutto questo! Ma chi si credono d’essere, quegli ometti pomposi? Perché questa tiritera di teschi, questa cerimonia di schieramento contrapposto?
Fra Antonio ci osserva solennemente, come se ci stesse giudicando. Non c’è altro suono tranne il nostro respiro e l’allegro zampillare della fontana. Prego, maestro, un sottofondo di musica seria.
Mors stupebit et natura, cum resurget creatura, judicanti responsura. Quando l’intera creazione risorgerà per rispondere al Giudice, Morte e Natura assisteranno stupefatte. Per rispondere al Giudice. Sei forse tu il nostro giudice, Fra Antonio?
Quando Judex est venturus, cuncta stricte discussurus! Si deciderà mai a parlare? Dobbiamo forse rimanere sospesi in eterno fra nascita e morte, fra utero e tomba? Ah, stanno seguendo il copione! Uno dei frati minori, cioè di quelli senza ciondolo, si accosta a una nicchia nella parete e ne tira fuori un libro sottile, riccamente legato in lucido marocchino rosso. Lo porge a Fra Antonio. Non ho bisogno di sentirmelo dire: so già di che libro si tratta.
Liber scriptus proferetur, in quo totum continetur. Verrà presentato il libro scritto, nel quale è contenuta ogni cosa. Unde mundus judicetur. Mediante il quale il mondo sarà giudicato.
Che posso dire? Rex tremendae majestatis, qui salvandos salvas gratis, salva me, fons pietatis. Oh re di tremenda maestà, che salvi liberamente coloro che devono essere salvati, salvami, oh fonte di misericordia!
Adesso Fra Antonio porta lo sguardo su di me. — Il Libro dei Teschi — dice, con voce dolce, tranquilla, vibrante — ha pochi lettori, oggidì. In che modo vi è capitato fra le mani?
— Un antico manoscritto — rispondo. — Nascosto e dimenticato in una biblioteca universitaria. I miei studi… una scoperta casuale… la curiosità mi ha indotto a tradurlo…
Il frate annuisce. — E il nesso con noi? Come l’avete trovato?
— Un articolo di giornale — rispondo. — Qualcosa sull’iconografia, sul simbolismo… Noi eravamo in vacanza e abbiamo deciso di rischiare, di venire a vedere se… se…
— Sì — dice Fra Antonio, non in tono di domanda. Sorride sereno. Mi fissa, chiaramente aspettando che io prosegua.
Siamo in quattro. Abbiamo letto tutti il Libro dei Teschi, e siamo in quattro. A questo punto manca solo la domanda formale di ammissione. Exaudi orationem meam, ad te omnis caro veniet. Ma non riesco a parlare. Rimango muto in quell’infinito rimbombo di silenzio, sperando che Ned pronunci le parole che mi si fermano in gola, sperando che le dica Oliver, o addirittura Timothy.