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In momenti simili, quando penso queste cose, mi sento travolgere da una specie di disperazione. E non riesco più a credere a nulla. Perfino le parole perdono il loro significato e diventano suoni vacui. Tutto diviene astratto: non solo parole nebulose come amore e speranza e morte, ma anche altre concrete come albero, strada, acido, caldo, morbido, cavallo, finestra. Non riesco più a sentirmi sicuro che una determinata cosa sia quello che dovrebbe essere, poiché il suo nome è soltanto un suono. Il contenuto dei nomi viene lavato via completamente. Vita. Morte. Tutto. Nulla. Sono la medesima cosa, no? Perciò, che cosa è reale e che cosa non lo è? E che differenza fa?

Forse che l’intero universo non è un mucchio di atomi, che noi sistemiamo in schemi significativi mediante le nostre facoltà di percezione? E i pacchetti di percezione che noi montiamo, non possiamo forse smontarli altrettanto facilmente col solo cessare di credere all’intero procedimento? Non devo far altro che ritirare la mia accettazione del concetto astratto che quanto vedo — quanto credo di vedere — esiste realmente. E così potrò attraversare le pareti di questa stanza, una volta che io riesca a negare le pareti. E potrò vivere per sempre, una volta che neghi la morte. E potrò morire ieri, una volta che neghi l’oggi.

Quando entro in quest’ordine d’idee scendo a spirale giù giù nel gorgo dei miei stessi pensieri… finché sono perduto, perduto, perduto per sempre. Ma noi siamo qui. Questo luogo è reale. Noi ci troviamo nel suo interno. Quelli là ci hanno accolti come candidati.

È tutto stabilito. È tutto reale. Ma «reale» è soltanto un suono. «Reale» non è reale. Credo di non essere più collegato con le cose. Gli altri tre vanno al ristorante e sono convinti di mordere un’ottima e sugosa bistecca ai ferri; io, invece, saprei di star mordendo un pacco di atomi, un oggetto astratto di percezione, e dagli oggetti astratti di percezione non si può certo ricavare nutrimento. Io nego la «bistecchità» della bistecca. Nego la realtà della bistecca. Nego la realtà della Casa dei Teschi. Nego la realtà di Oliver Marshall. Nego la realtà della realtà.

Devo essere stato troppo al sole, oggi.

Sono spaventato. Sto andando a pezzi. Non sono più in contatto. E non posso parlarne con nessuno di loro. Nego anche loro, infatti. Ho negato ogni cosa, ormai, Dio m’aiuti, ho negato anche Dio! Ho negato la morte e ho negato la vita. Che cosa chiedono, i seguaci dello Zen? Che rumore si fa, battendo le mani con una mano sola? Dove va, la fiamma della candela, quando si spegne il lucignolo?

Dove va, la fiamma?

Credo che ci andrò anch’io e presto.

27

Eli

E così si comincia. Le cerimonie, la dieta, la ginnastica, gli esercizi spirituali, e tutto resto. Senza dubbio abbiamo visto soltanto la sommità dell’iceberg. Ci sono ancora molte cose da svelare: per esempio, non sappiamo quando si dovrà ottemperare alle condizioni imposte dal Nono Mistero. Domani, venerdì prossimo, a Natale, quando?

Già ci guatiamo a vicenda in un modo sinistro, scrutando il volto come per attraversarlo e giungere al teschio sottostante. Tu, Ned, vorrai ucciderti per noi? Tu, Timothy, stai tramando di uccidermi in modo che tu possa vivere?

Non una sola volta abbiamo discusso fra noi di questo aspettò della faccenda: sembra troppo terribile e troppo assurdo parlarne o anche solo pensarci. Forse i requisiti sono simbolici, metaforici. Forse no.

Ciò mi preoccupa. Fin dall’inizio di questo progetto ho captato certi presupposti inespressi, a proposito di chi dovrà sparire qualora le condizioni imposte siano reali: Ned perirebbe di propria mano, io per mano degli altri due.

Naturalmente io mi rifiuterò. Io sono venuto qui per ottenere la vita eterna. Non so se si può dire altrettanto di loro. Ned, da quello spostato che è, sarebbe capace di considerare il suicidio come la sua più bella poesia. Timothy non sembra realmente interessato all’eternità, ma suppongo che la prenderebbe se venisse via senza troppa fatica. Oliver, scaldandosi fino all’eccesso, sostiene in continuazione che lui si rifiuterà sempre di morire, nel modo più categorico; ma Oliver è un individuo molto meno stabile di quanto appare in superficie, e non c’è da fare affidamento sui suoi impulsi. Con i giusti suggerimenti filosofici potrebbe trovarsi innamorato della morte con la stessa intensità con cui afferma di esserlo della vita.

Perciò non saprei proprio dire chi soccomberà al Nono Mistero e chi invece vivrà. So solo che io sto sul chi vive, e continuerò a starci per tutto il tempo che rimarremo qui.

A proposito: quanto tempo dovrebbe essere? Non ci abbiamo mai pensato minimamente. Le vacanze di Pasqua termineranno fra sei o sette giorni, immagino, e per allora l’Iniziazione non sarà certo terminata. Ho la sensazione che durerà mesi o addirittura anni. Ce ne andremo via la prossima settimana, infischiandocene? Abbiamo giurato di no, ma naturalmente i frati non possono fare molto se noi ce ne sgattaioliamo via nel cuore della notte.

Però io voglio rimanere. Settimane, se necessario. Anni, se necessario. Nel mondo esterno ci daranno per dispersi. All’anagrafe, alla commissione di leva, a casa, tutti si preoccuperanno. Purché non ci rintraccino fin qui! I frati sono andati a prendere nell’auto i nostri bagagli. L’auto, invece, è ancora parcheggiata all’inizio del viottolo che conduce nel deserto. Finirà per trovarla la polizia statale? Manderà un agente a perlustrare il viottolo, alla ricerca del proprietario di quella luccicante berlina? Ma noi rimarremo qui per tutta la durata dell’Iniziazione. O almeno ci rimarrò io.

E se la cerimonia dei Teschi si rivelerà autentica?

Quando avrò ottenuto ciò che più desidero, non mi fermerò qui come invece hanno fatto i frati. Oh, potrei stare un cinque o dieci anni: giusto per un senso di correttezza, di gratitudine.

Ma poi me ne andrò. Il mondo è grande: perché trascorrere l’eternità in un ritiro nel deserto? Mi sono già fatto il programma per la vita che mi aspetta. In un certo senso è come quello di Oliver: intendo saziare la mia fame di esperienze. Vivrò tutta una serie di vite, prendendo da ciascuna il massimo che sarà in grado di darmi.

Comincerò con dieci anni a Wall Street, accumulando una fortuna. Se mio padre ha ragione (e io sono sicuro che l’ha), qualunque individuo abbastanza intelligente è in grado di sconfiggere la Borsa mediante il semplice sistema di fare il contrario di quello che fanno i presunti furbi. Costoro non sono che pecore, buoi, un branco di goyishe kops. Ottusi, avidi, sempre pronti a seguire la moda del momento. E così io giocherò in campo avverso e me ne verrò via con due o tre milioni che investirò in titoli assolutamente sicuri: ottimi dividendi, rendita garantita. Dopotutto, intendo vivere di quei dividendi per i prossimi cinque o diecimila anni.

E una volta diventato economicamente indipendente? Be’, dieci anni di gozzoviglie. Perché no? Se si hanno denaro e disinvoltura a sufficienza, si può avere qualsiasi donna al mondo, giusto? Avrò Margo, e una decina come lei ogni settimana. Ne ho il diritto. Un po’ di lussuria, certo: il sesso non sarà una cosa intellettuale, non sarà una cosa sublime, ma in un’esistenza priva di asperità ci vuole anche quello. Benissimo. Oro e lussuria.