Qui ci sono anche donne, ignoriamo quante: forse solo tre o quattro, forse una decina. Di loro abbiamo una visione periferica: un’apparizione adesso, un’apparizione più tardi. Attraversano sempre da lontano il nostro campo visivo, passando di stanza in stanza per misteriose commissioni private, senza mai fermarsi, senza mai guardarci. Così come i frati, anche loro sono vestite nello stesso modo; solo che invece di calzoni azzurri tagliati corti indossano una tunichetta bianca. Quelle che ho visto avevano lunghi capelli neri e petto abbondante, e neppure gli altri tre ne hanno incontrate di sottili o bionde o rosse. Hanno fra loro una stretta somiglianza il che è appunto ciò che mi rende incerto sul loro numero: non riesco mai a capire se la donna che vedo in un certo momento è diversa dalle precedenti o è sempre la stessa.
Il secondo giorno che eravamo qui, Timothy ha chiesto a Fra Antonio qualche chiarimento sulla presenza di quelle donne: gli è stato risposto compitamente che è proibito porre ai membri della Confraternita domande relative alla procedura interna; ogni cosa ci verrà spiegata al momento opportuno, ha promesso Fra Antonio. Abbiamo dovuto accontentarci di questo.
La nostra giornata è programmata tutta dall’inizio alla fine. Ci alziamo col sole: poiché non esistono finestre dipendiamo da Fra Franz, che all’alba passa per il corridoio del dormitorio battendo alle porte. La prima occupazione (obbligatoria) è il bagno. Poi andiamo nei campi a lavorare per un’ora.
Tutto il cibo dei frati viene preparato da loro; coltivano un orto che si trova duecento metri dietro l’edificio. Un complesso sistema d’irrigazione pompa l’acqua da chissà quale sorgente sotterranea: installarlo dev’essere costato una fortuna, così come dev’essere costato una fortuna e mezzo costruire la Casa dei Teschi; ma io sospetto che la Confraternita sia enormemente ricca. Come ha fatto notare Eli, qualsiasi organizzazione capace di sopravvivere ai secoli, e che investa il proprio patrimonio all’interesse composto del cinque o sei per cento, finirebbe col trovarsi proprietaria d’interi continenti.
I frati coltivano frumento, erbe aromatiche, e un intero assortimento di frutti, bacche e radici. Non conosco quasi nessuna delle piante che sarchiamo e curiamo così amorevolmente, ma sospetto che la maggior parte siano esotiche. Riso, fagioli, grano, e ortaggi «forti» come la cipolla, sono vietati. Il frumento, mi pare di capire, è tollerato solo a malincuore, essendo ritenuto di nessun valore spirituale ma in un certo senso necessario al fisico; ma prima che sia trasformato in pane viene sottoposto a cinque vagliature e dieci moliture, accompagnate da meditazioni speciali.
I frati non mangiano carne, e non ne mangeremo neppure noi per tutto il tempo che resteremo qui. La carne, evidentemente, è’fonte di vibrazioni deleterie. Il sale è bandito. Il pepe è fuorilegge. Il pepe nero, cioè; il capsico rientra nell’ortodossia, e i frati ne fanno grande uso, consumandolo in mille modi come i messicani: fresco, secco, in polvere, sott’aceto, ecc. ecc. ecc. La qualità che coltivano qui è veramente di fuoco. Eli e io andiamo matti per le spezie, e ne usiamo in abbondanza anche se talvolta ci fanno venire le lacrime; ma Timothy e Oliver, abituati a cibi più insipidi, non le sopportano per niente.
Un altro alimento prediletto, qui, sono le uova. C’è un allevamento pieno di galline indaffaratissime, e il menù della casa prevede uova — preparate in questo o in quel modo — tre volte al giorno. I frati producono anche certi liquori di erbe, moderatamente alcolici, sotto la supervisione di Fra Maurizio, il frate distillatore.
Quando abbiamo terminato la nostra ora di servizio nei campi, un gong ci chiama: andiamo nelle nostre stanze per fare un altro bagno, e poi c’è la colazione. I pasti sono serviti in una delle stanze «pubbliche» a un elegante tavolo di pietra. Il menù è calcolato secondo certi principi arcani che non ci sono ancora stati rivelati: pare che il colore e la consistenza di quanto mangiamo siano determinanti allo stesso modo del valore nutritivo. Mangiamo uova, minestre, pane, passati di verdura, e così via, il tutto abbondantemente condito con capsico. Come bevande abbiamo acqua, un tipo di birra di frumento, e alla sera i liquori di erbe; nient’altro. Oliver, gran consumatore di bistecche, si lamenta per l’assenza di carne. Anch’io ne ho sentito la mancanza, all’inizio; ma poi mi sono adattato completamente a questo strano regime, come pure Eli. Timothy borbotta fra sé e sé e tracanna liquori. Il terzo giorno, a pranzo, ha bevuto troppa birra e ha vomitato su quel fantastico pavimento di ardesia; Fra Franz ha atteso che terminasse, poi gli ha teso uno straccio e senza parlare gli ha ordinato di pulire quella porcheria.
È chiaro che Timothy non piace ai frati; e forse anche ne hanno un po’ paura, perché è alto quasi una spanna più di loro e peserà una cinquantina di chili di più. A noialtri tre, come ho detto, vogliono un gran bene, e in astratto ne vogliono anche a Timothy.
Dopo la colazione vengono le meditazioni del mattino, con Fra Antonio. Lui non si dilunga in troppe chiacchiere, ma si limita a fornirci un contesto spirituale usando il minor numero possibile di parole.
Ci riuniamo nell’altra ala posteriore dell’edificio, di rimpetto all’ala del dormitorio: è completamente adibita alle funzione monastiche. Invece di camere da letto, ci sono cappelle: diciotto, corrispondenti (suppongo) ai Diciotto Misteri. Hanno mobilio parso e arredamento severo, come le altre stanze, e contengono una serie di straordinari capolavori artistici. La maggior parte sono precolombiani; ma alcuni calici e bassorilievi hanno l’aria di essere medioevali, e ci sono certi oggetti astratti (di avorio? di osso? di pietra?) che non riesco assolutamente a catalogare.
Quest’ala dell’edificio possiede anche una biblioteca zeppa di libri: autentiche rarità, a giudicarle da lontano. La porta non è mai chiusa, ma per ora noi abbiamo il divieto di entrare.
Fra Antonio ci riceve nella cappella più vicina all’ala pubblica. La stanza è vuota, a parte l’onnipresente maschera a forma di teschio appesa alla parete. Il frate s’inginocchia; noi c’inginocchiamo; lui si toglie dal petto il minuscolo ciondolo di giada (che raffigura un teschio, come c’era da aspettarsi) e lo depone davanti a noi sul pavimento, come punto focale su cui concentrarci per le nostre meditazioni.
In quanto frate superiore, Fra Antonio porta l’unico ciondolo di giada; ma Fra Miklos, Fra Javier e Fra Franz hanno il diritto di portare un analogo ciondolo di una pietra bruna e lucida (ossidiana, immagino, o onice). Questi quattro frati sono i Custodi dei Teschi, un’élite all’interno della comunità.
Ciò che Fra Antonio ci esorta a contemplare è un paradosso: il teschio che giace sotto il volto, la presenza del simbolo di morte celato sotto la nostra maschera viva. Mediante un esercizio di «visione interiore» dovremmo assorbire, assimilare fino in fondo e distruggere definitivamente il potere del teschio, purificandoci così dall’impulso di morte.
Non so se e quanto ci siano riusciti i miei compagni; un’altra cosa vietata è scambiare commenti sui rispettivi progressi.
Timothy? Dubito che sia molto bravo, in meditazione. Oliver lo è manifestamente, invece: contempla il teschio di giada con una fissità da pazzo, avvolgendolo, fagocitandolo, e io mi figuro che la sua anima esca da lui ed entri nell’oggetto. Ma lui starà procedendo nella direzione giusta?
Eli. Una volta mi aveva manifestato la sua difficoltà a raggiungere sotto l’effetto delle droghe i massimi livelli dell’esperienza mistica: la sua mente è troppo vivace, troppo eccitabile, e lui ha sprecato vari «viaggi» con l’«acido» guizzando qui e là invece di mettersi lì buono buono e scivolare nel Tutto. Credo che anche qui gli sia difficile concentrarsi: durante l’ora di meditazione ha un aspetto teso e impaziente e sembra che cerchi di spingersi a tutti i costi in un campo nel quale non può penetrare.