E così ha inizio, in quell’alba gelida, l’alleanza fra gli uomini della montagna e gli uomini dell’isola; e così hanno inizio il flusso di karma verso la terraferma circondata dai ghiacci, il risveglio, il trasferimento del sapere. E quando poi giunge il cataclisma, quando il suolo si lacera e le colonne vacillano e il mondo è ricoperto da un drappo nero, quando i viali e le torri sono inghiottiti dal mare infuriato… qualcosa continua a vivere, qualcosa sopravvive nelle caverne: i segreti, le cerimonie, la fede, il Teschio, il Teschio, il Teschio!
È andata così, Fra Miklos? Per dieci, quindici, ventimila anni, da un remotissimo passato che noi vorremmo negare? Gran benedizione, essere vivi in quell’alba! E tu sei ancora qui, Fra Miklos?
Sei giunto fino a noi da Altamira, da Lascaux, dalla stessa Atlantide condannata. Tu e Fra Antonio e Fra Bernardo e tutti gli altri. Siete sopravvissuti all’Egitto, siete sopravvissuti ai Cesari, prosternandovi davanti al Teschio, sopportando ogni cosa, ammassando ricchezze, dissodando il suolo, migrando di terra in terra, dalle caverne benedette ai neonati villaggi neolitici, dalle montagne ai fiumi, di nazione in nazione, fino alla Persia, a Roma, alla Palestina, alla Catalogna, apprendendo le lingue a mano a mano che si evolvevano, parlando alle popolazioni, dichiarandovi inviati dei loro dèi, costruendo i vostri templi e monasteri, rendendo omaggio a Iside, a Mitra, a Jahvè, a Gesù, a questa e a quella divinità, assimilando ogni cosa, sopportando ogni cosa, mettendo la Croce sopra il Teschio quando venne di moda la Croce, padroneggiando l’arte di sopravvivere, accogliendo di tanto in tanto fra voi un altro Ricettacolo, chiedendo sempre nuovo sangue benché il vostro non invecchiasse mai.
E poi? Poi vi siete trasferiti nel Messico, dopo che Cortés vi ebbe aperto la strada. Era una regione che capiva già il potere di morte, era un luogo in cui già regnava il Teschio, forse portato lì (così come nella vostra terra) dalla gente dell’isola, da missionari atlantidi recatisi anche a Cholula e a Tenochtitlan per mostrare la via della maschera di morte.
Terreno fertile, per qualche secolo. Ma voi esigete un rinnovamento costante; perciò avete ricominciato a peregrinare portando con voi il vostro bottino, le maschere, i teschi, le statue, i tesori paleolitici; verso nord, nella nuova terra, nella terra deserta, nel cuore disabitato degli Stati Uniti, nel territorio da bombe; e grazie all’interesse composto accumulatosi nei secoli avete costruito la vostra più recente Casa dei Teschi, eh, Fra Miklos?
Ed eccovi qui, ed eccoci qui anche noi.
È andata così? Oppure ho avuto io un’allucinazione, pasticciando le tue parole vaghe e oscure in uno sfarzoso sogno d’autoillusione? Come faccio a saperlo? Come potrò saperlo mai? Tutto quello che ho è quanto mi hai detto, che tremola e svanisce dalla mia mente. E vedo ciò che mi sta intorno, vedo la vostra iconografia originaria contaminata da visioni azteche, da visioni cristiane, da visioni atlantidi; e posso solo domandarmi, Fra Miklos, come mai tu sei ancora qui mentre i mammut sono scomparsi dalla scena, e se io sono uno sciocco o un profeta.
Il secondo soggetto sul quale c’intrattiene Fra Miklos è esposto in maniera meno nebulosa, e viene compreso e assimilato con maggior facilità. Costituisce un seminario sul prolungamento della vita, durante il quale il frate percorre spassionatamente il tempo e lo spazio alla ricerca di concezioni apparse su questo mondo parecchio dopo di lui.
Tanto per cominciare, domanda Fra Miklos, perché opporsi alla morte? Non è forse una conclusione naturale, un’auspicabile liberazione dagli affanni, una fine da desiderare di tutto cuore? Il teschio sottostante al volto ci rammenta che tutte le creature, quando è giunta la loro ora, sono destinate a perire, nessuna esclusa: perché ribellarsi, dunque, a questa legge universale? Polvere sei e polvere tornerai, no? Tutta la carne dovrà perire; noi scompariremo da questo mondo come in autunno le mosche; e quindi è cosa meschina aver paura dell’inevitabile.
Ah, ma possiamo forse essere così filosofi? Se è nostro destino andarcene, non è anche nostro desiderio ritardare il momento della dipartita?
Le domande di Fra Miklos non attendono risposta. Seduti a gambe incrociate davanti a quella nerboruta torre di anni, noi non osiamo certo interferire col ritmo dei suoi pensieri. Il frate ci guarda senza vederci. E se uno — domanda ancora — potesse davvero posporre indefinitamente la morte, o almeno ricacciarla nel futuro remoto? Naturalmente è necessario conservare energie e salute: a che giova diventare un immortale vecchio e cisposo, che parla biascicando e sbavando, insomma una massa deambulante in decadimento perpetuo? Prendiamo per esempio Titone, che ha supplicato gli dèi di esentarlo dalla morte e ha ottenuto il dono dell’immortalità ma non quello dell’eterna giovinezza: grigio, avvizzito, ora giace in una stanza, sigillata, invecchiando per l’eternità, vincolato alle limitatezze della sua carne corruttibile e corrotta. No, insieme alla longevità dobbiamo conseguire il vigore.
Ci sono alcuni, osserva Fra Miklos, che disdegnano simili domande e sostengono la passiva accettazione della morte.
Ci ricorda Gilgamesh, che camminò dal Tigri all’Eufrate per cercare la spinosa pianta dell’eternità e se la lasciò sottrarre da un serpente affamato. Gilgamesh, dove corri? La vita che cerchi non la troverai, perché quando gli dèi crearono l’umanità le assegnarono la morte, e la vita se la tennero al sicuro tutta per loro.
Prendiamo Lucrezio, dice Fra Miklos: Lucrezio osserva che è inutile cercare di allungare la propria vita: per numerosi che siano gli anni che possiamo guadagnare con questo o quel sistema, sono meno di niente in confronto all’eternità che dovremo comunque trascorrere nella morte. Anche prolungando l’esistenza, non sottrarremo uno iota alla durata della morte… Possiamo lottare in tutti i modi per rimanere; ma alla fine dovremo pur sempre andarcene, e non importa quante generazioni saremo riusciti ad aggiungere alla nostra vita: ci attenderà ugualmente la medesima morte eterna.
Fra Miklos cita Marco Aurelio: anche se dovessi vivere tremila anni, o tremila volte diecimila anni, ricordati che non si perde altra vita se non questa che viviamo ora… la più lunga e la più corta, pertanto, finiscono con l’equivalere… tutte le cose che appartengono all’eternità hanno la medesima forma e girano in cerchio: non fa differenza vedere le medesime cose per cent’anni o per duecento o per un tempo infinito.
E una citazione di Aristotele, che ho imparato a memoria: di conseguenza tutte le cose di questo mondo, in ogni tempo, si trovano in uno stato di transizione e vengono in essere per poi scomparire… e non saranno mai eterne fintanto che conterranno qualità contrarie.
Che desolazione! Che pessimismo! Accettare, sottomettersi, arrendersi, morire, morire, morire, morire!
Che cosa dice la tradizione giudeo-cristiana?
Chi è nato di donna vivrà un breve numero di giorni, e pieni di tribolazioni. Sboccia come un fiore, e poi viene reciso: svanisce come un’ombra, e non c’è più. I suoi giorni fuggono e il numero dei suoi mesi è presso Dio, il quale gli ha posto un limite invalicabile.
Questa è la lugubre saggezza di Giobbe, appresa nel modo più duro. E San Paolo?
Per me, la vita è Cristo e la morte un guadagno. Se devo avere vita di carne, questa per me significa apostolato proficuo. Tuttavia non so che cosa io debba preferire, anche se il mio desiderio è di andarmene ed essere con Cristo, che è di gran lunga la cosa migliore.
Ma, domanda Fra Miklos, dobbiamo accettare simili insegnamenti? Lascia capire che San Paolo, Giobbe, Lucrezio, Marco Aurelio, Gilgamesh, sono tutti degli ultimi arrivati, ancora con la bocca sporca di latte, irrimediabilmente postpaleolitici; e ci dà un’altra immagine delle buie caverne mentre rientra in argomento zigzagando verso il passato infestato dai bisonti.