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Poi torna di colpo a recitare gli annali della longevità: tutti i nomi altisonanti con cui Eli ci ha fatto rintronare gli orecchi durante i mesi invernali, mentre ci preparavamo a questa avventura. Le Isole dei Beati, la Terra degl’Iperborei, la Terra della Giovinezza, Shangri-La, la fontana incantata di Ponce de Leon, il pescatore Glauco che rosicchia le erbe accanto al mare e torna giovane per sempre, i fantasiosi resoconti di Erodoto, gli Uttarakuru e l’albero Jambu… Davanti ai nostri occhi abbagliati danzano centinaia di miti rutilanti, al punto che vorremmo gridare — Vieni! Vieni, Eternità! — e prosternarci al Teschio.

Ma subito Fra Miklos cambia di nuovo argomento e ci trascina un’altra volta — come su un nastro di Mòbius — nelle caverne, facendoci percepire le raffiche dei venti glaciali e il gelido bacio del Pleistocene; ci prende per gli orecchi e ci gira verso ovest, facendoci vedere il sole infuocato che arde sopra Atlantide; ci spinge — incespicanti ed esausti — lungo il nostro cammino, verso il mare, verso la terra del tramonto, verso le meraviglie sommerse, e oltre ancora, verso il Messico con i suoi dèi-demoni, con i suoi dèi-teschi, Huitzilopochtli dallo sguardo bieco e il terribile Quetzalcoatl dal corpo di serpente, verso il dio scorticato, verso tutti i paradossi della vita nella morte e della morte nella vita…

E il serpente piumato ride e scuote i sonagli della coda, clic-clic-clic, e noi siamo davanti al Teschio, davanti al Teschio, davanti al Teschio, con grandi rintocchi di gong che ci risuonano nel cervello dai labirinti dei Pirenei, e beviamo il sangue dei tori di Altamira, e balliamo il valzer con i mammut di Lascaux, e udiamo i tamburelli degli sciamani, e c’inginocchiamo, posiamo la fronte sulla pietra, facciamo l’acqua, piangiamo, rabbrividiamo alle vibrazioni dei tamburi atlantidi che martellano cinquemila chilometri di oceano per il furore di una perdita irreparabile, e il sole sorge e la luce ci riscalda e il Teschio sorride e le braccia si aprono e la carne prende il volo e la sconfitta della morte è a portata di mano…

Ma l’ora di storia è terminata e Fra Miklos si ritira, lasciandoci lì a sbattere le palpebre e a incespicare per l’improvviso ritorno alla realtà, lasciandoci soli, soli, soli, soli. Fino a domani.

Dopo l’ora di storia facciamo lo spuntino di mezzogiorno. Uova, passato di capsico, birra, compatto pane nero. Dopo mangiato c’è un’ora di meditazioni in privato, ciascuno nella propria stanza, durante le quali ci sforziamo di ricavare un senso da tutto quello che ci hanno ficcato in testa.

Poi suona il gong, chiamandoci di nuovo nei campi. Ormai il calore del pomeriggio si è abbattuto in pieno, e anche Oliver mostra qualche traccia di stanchezza. Con movimenti pacati puliamo la stia delle galline, mettiamo il tutore alle pianticelle giovani, diamo una mano agl’instancabili frati contadini che sono lì a lavorare dal mattino. Così per due ore; è presente tutta la Confraternita tranne Fra Antonio, che se ne sta da solo nella Casa dei Teschi (ecco perché c’era soltanto lui, quando siamo arrivati qui). È finalmente le nostre fatiche hanno termine. Sudati, cotti dal sole, ci trasciniamo nelle nostre stanze, facciamo un ennesimo bagno, e riposiamo fino all’ora di cena.

Dopo mangiato (il solito genere di piatti) aiutiamo a sparecchiare. Mentre si avvicina il tramonto andiamo con Fra Antonio (e quasi sempre con quattro o cinque degli altri frati) su una bassa collina esattamente a ovest della Casa dei Teschi, dove compiamo il rito dell’assimilazione dell’alito del sole.

Prendiamo una singolare e scomodissima posizione accovacciata a gambe incrociate — una via di mezzo fra la posizione del loto e quella del velocista che si prepara a scattare — e fissiamo lo sguardo sul rosso globo del sole calante. Nell’attimo in cui ci sembra che ci si stia producendo un foro nella retina dobbiamo chiudere gli occhi e meditare sullo spettro di colori che fluisce dal disco solare a noi. Bisogna fare in modo, ci hanno detto, che lo spettro attraversi le palpebre e si diffonda — passando per i seni frontali e le vie nasali — fino alla gola e al petto. Alla fine le radiazioni solari dovrebbero fermarsi nel cuore e lì generare calore e luce datori di vita.

Ci assicurano che quando ci saremo impratichiti potremo collegare questa radiazione con qualsiasi parte del corpo che abbia bisogno di un particolare rinvigorimento: i reni, tanto per dire, o i genitali, o il pancreas, e così via. Presumibilmente, i frati accovacciati accanto a noi fanno appunto questo.

Quale sia il valore di tale pratica, è al disopra della mia capacità di giudizio. Per me non vale una cicca, dal punto di vista scientifico, ma Eli ha continuato a ripetere fin dall’inizio che si può vivere più a lungo di quanto dice la scienza; e se le tecniche di longevità qui applicate si basano su metaforici e simbolici riorientamenti del metabolismo, che conducono a modifiche empiriche nel meccanismo corporeo, allora forse questo assimilare l’alito del sole è per noi di primaria importanza. I frati non ci hanno mica fatto vedere il loro certificato di nascita: per quel che ne sappiamo, la validità dell’intero procedimento dobbiamo accettarla per atto di fede.

Quando il sole è tramontato ci ritiriamo in una delle stanze pubbliche per assolvere l’ultimo dovere della nostra giornata: l’ora di ginnastica, con Fra Bernardo. Secondo quanto afferma il Libro dei Teschi, per conseguire il prolungamento della vita è essenziale mantenere agile il corpo. Be’, non è certo una novità; ma naturalmente la tecnica della Confraternita per mantenere agile il corpo è permeata da una particolare atmosfera mistico-cosmologica.

Cominciamo con esercizi di respirazione, il significato dei quali ci è stato spiegato da Fra Bernardo nel suo solito modo laconico: si tratta di qualcosa che c’entra col ridimensionamento del proprio rapporto con l’universo fenomenico, in modo che il macrocosmo venga a trovarsi all’interno e il microcosmo all’esterno. O almeno credo che sia così ma spero che andando avanti avremo altri chiarimenti.

Poi c’è dell’altra roba esoterica connessa con lo sviluppo del respiro interiore ma, a quanto pare, non ha importanza che noi la comprendiamo.

Comunque sia, ci rannicchiamo e cominciamo una vigorosa iperventilazione, scaricando dai polmoni tutte le impurità e introducendo la buona e pulita e spiritualmente approvata aria notturna. Dopo un prolungato periodo di espirazioni e inspirazioni ci alleniamo a trattenere il fiato (il che ci lascia pieni di esaltazione e di vertigini) e infine passiamo a strani esercizi di trasporto del fiato stesso con i quali dobbiamo imparare a dirigere in varie parti del corpo l’aria inspirata, così come abbiamo già fatto con la luce del sole.

Tutto questo è una faticaccia, ma l’iperventilazione produce una piacevole euforia: ci sentiamo la testa leggera, diventiamo ottimisti, e ci convinciamo facilmente di essere ben avviati lungo la strada che conduce alla vita eterna. Forse è proprio così, se è vero che ossigeno = vita e che anidride carbonica = morte.

Quando Fra Bernardo giudica che a furia di esercizi respiratori abbiamo raggiunto lo stato di grazia, passiamo alle torsioni. Gli esercizi cambiano ogni sera, quasi il frate attingesse a un repertorio infinitamente vàrio sviluppatosi per un migliaio di secoli.

Sedere a gambe incrociate e calcagni a terra, congiungere le mani sopra la testa, toccare con i gomiti il suolo, per cinque volte e rapidamente (ohi!).

Mano sinistra sul ginocchio sinistro, mano destra sopra il capo, respirare profondamente dieci volte. Ripetere con la mano destra sul ginocchio destro e la sinistra alzata.

Con le mani alte sopra il capo, agitare freneticamente la testa fino a quando si vedono le stelle dietro le palpebre chiuse.