Выбрать главу

— Ci siamo già messi d’accordo di rimanere — mi ha interrotto Eli — e di dare una possibilità al Libro dei Teschi. Non c’è niente da discutere. Tu puoi andartene quando vuoi, ma tieni presente che in tal modo ci esporresti a un rischio sicuro.

— Questo è un ricatto.

— Lo so. — I suoi occhi lampeggiavano. — Di cosa hai paura, Timothy? Del Nono Mistero? È questo, che ti spaventa? Oppure ti preoccupa la possibilità di ottenere davvero la vita eterna? Ti senti oppresso dal terrore esistenziale, per caso? Ti vedi già legato alla ruota del karma, secolo dopo secolo, impossibilitato a liberartene? Cos’è che ti spaventa di più Timothy: vivere o morire?

— Piccolo sporco leccaculo…

— Hai sbagliato stanza. Qui fuori a sinistra, due porte più in là: chiedi di Ned.

— Senti, io sono venuto qui per parlare sul serio. Non cerco battute di spirito né minacce né insulti. Voglio solo sapere quanto tempo calcolate di rimanere, tu e Oliver e Ned.

— Siamo appena arrivati. È ancora troppo presto per parlare di andarcene. E adesso vuoi lasciarmi in pace, per favore?

Me ne sono andato via. Discutere non serviva a niente, e lo sapevamo tutt’e due. Ed Eli mi aveva colpito, più volte, in punti che io stesso non immaginavo così vulnerabili.

Dopo, a cena, si è comportato come se non gli avessi detto neppure mezza parola.

E adesso? Devo starmene qui buono buono e aspettare e tormentarmi con i dubbi? Non resisto oltre, davvero. Non sono fatto per la vita monastica, ecco tutto (a prescindere dal Libro dei Teschi e da quanto può offrire). Bisogna esserci nati, per questo genere di cose: bisogna avere la rinuncia impressa nei geni, con un pizzico di masochismo.

Glielo devo far capire, a Eli e a Oliver. I due pazzi, i due maniaci dell’immortalità. Sono disposti a rimanere qui dieci o vent’anni a strappare le erbacce, a rompersi la schiena con quegli esercizi, a fissare il sole finché sono semiciechi, a respirare profondamente, a mangiare zuppa pepata, e a convincersi che è la strada giusta per conseguire la vita eterna.

Eli, che mi ha sempre dato l’impressione di essere fondamentalmente abbastanza ragionevole benché sbandato e nevrotico, adesso mi sembra partito del tutto. I suoi occhi sono diventati vitrei e ardenti come quelli di Oliver: occhi da psicotico, terribili. Eli ha dentro qualcosa che si agita. Acquista forza di giorno in giorno: non soltanto muscoli, ma una specie di energia morale, di fervore, di dinamismo; segue la strada prescelta e lascia capire chiaramente che non permetterà a nulla d’interporsi fra lui e ciò che lui vuole. È un atteggiamento nuovo di zecca, per Eli. Talvolta penso che si stia trasformando in una specie di Oliver: un Oliver basso, bruno, peloso, yiddish.

Oliver, naturalmente, tiene la bocca chiusa e lavora per dieci e nell’ora di ginnastica si contorce in un nodo con fiocco cercando di superare il frate in quelle pratiche fratesche.

E perfino Ned sta trovando la fede. Non più battute di spirito, da lui, noi più giochi di parole. Al mattino stiamo lì ad ascoltare Fra Miklos che svolge lunghe matasse idiote di ciance senili, sì e no con una frase comprensibile su sei… e Ned, simile a un bambino di cinque anni al quale si racconti di Babbo Natale, contrae il volto per l’eccitazione, suda, si mangia le unghie, annuisce, continua a far andare su e giù il pomo d’Adamo.

Avanti così, Fra Miklos! L’Atlantide, sì, e l’uomo di Cro-Magnon, certo, e gli Aztechi, e tutto il resto, ci credo, ci credo! E poi facciamo lo spuntino, e poi meditiamo stando sul freddo pavimento di pietra delle nostre stanze, ognuno per conto suo, e poi andiamo a sudare per i frati in quei maledettissimi campi.

Basta, basta! Oggi non m’è andata bene, ma fra un giorno o due tornerò da Eli e proverò a ricondurlo alla ragione. Ma non ho molte speranze di riuscirci.

Eli mi spaventa un pochino, adesso.

E vorrei tanto che non avesse detto quella cosa, se mi fa più paura il Nono Mistero o l’idea di vivere per sempre. Vorrei proprio tanto che non me l’avesse detta.

30

Oliver

Un piccolo incidente mentre lavoravamo nei campi prima di colazione. Stavo passando tra due file di piante di capsico, e ho appoggiato il piede sinistro — nudo — su una scheggia di pietra che era riuscita a farsi strada verso la superficie e ne sporgeva col bordo tagliente. Ho sentito che la scheggia cominciava a incidermi la pelle e ho spostato rapidamente il peso, troppo rapidamente. Il piede destro non era pronto a sostenerlo. La caviglia ha cominciato a cedermi. Non mi rimaneva altro che lasciarmi cadere, come s’insegna a pallacanestro per quando si è urtati malamente e bisogna scegliere in fretta fra un capitombolo e uno strappo ai legamenti.

Dunque sono cascato, patapúmfete!, in pieno sul sedere. Non mi sono fatto male per niente, ma il guaio è che quel settore dei campi era stato irrigato copiosamente proprio la sera prima, ed era ancora fangoso: sono atterrato nella melma attaccaticcia e quando mi sono tirato su ho sentito un rumore come di risucchio.

Avevo i calzoni conciati da far pietà, col fondo tutto bagnato e chiazzato di fango. Niente di grave, naturalmente, a parte il fatto che non mi garbava la sensazione di umido che la stoffa mi trasmetteva alla pelle.

È accorso Fra Franz, per vedere se mi ero fatto male, e ha constatato che era tutto a posto tranne i calzoni. Gli ho chiesto se dovevo tornare in casa a cambiarmi, ma lui ha sorriso facendo segno di no col capo e ha risposto che non ce n’era bisogno. Bastava che mi togliessi i calzoni e li appendessi a un albero, e il sole li avrebbe asciugati in mezz’ora.

Okay, perché no? A me non fa né caldo né freddo, andarmene in giro senza panni addosso; e d’altra parte, quale intimità maggiore che lì in mezzo al deserto? Perciò mi sono sfilato i calzoni e li ho distesi sopra un cespuglio e mi sono raschiato via il fango dal sedere e ho ripreso a strappare le erbacce.

Il giorno era spuntato appena da una mezz’ora, ma già il sole si arrampicava in fretta su per il cielo e si stava facendo ardente; la temperatura, che durante la notte era scesa a cinque o dieci gradi, ora si stava avvicinando ai venti nella sua rapida salita verso la sommità del termometro.

Io sentivo il calore sulla pelle nuda, il sudore che cominciava a colarmi in rivoletti giù per schiena e natiche e gambe; e pensavo che bisognerebbe fare appunto così quando si lavora nei campi in una giornata afosa, che è una cosa bella e pulita stare nudi sotto il sole ardente, che non ha senso avvolgersi intorno ai fianchi una striscia di tessuto ruvido e sporco quando ci si può spogliare del tutto.

Più pensavo a questo, meno logico mi appariva il fatto stesso di portare indumenti: purché la temperatura sia calda e il proprio corpo non offenda la vista, che bisogno c’è di coprirsi? D’accordo: un sacco di persone non offrono uno spettacolo gradevole, viste al naturale; stanno meglio vestite, suppongo, o almeno ci sentiamo noi più a nostro agio. Ma io ero ben contento di essermi tolto i calzoni infangati. Che diavolo, lì fra altri uomini!

E mentre lavoravo avanzando lungo la fila di piante di capsico, facendo una bella sudata sana, la mia nudità mi ha fatto tornare in mente episodi del passato, quando cominciavo a scoprire il mio corpo e quello degli altri. Suppongo che la memoria mi si sia messa a fermentare a causa del caldo: nella testa mi scorrevano liberamente immagini e immagini, in un’informe nube di ricordi.

…Un ardente pomeriggio di luglio, lungo il ruscello, quando avevo… undici anni, sì: era l’anno in cui è morto mio padre. Ero con Jim e Karl, due amici miei, gli unici amici veramente intimi. Jim la mia stessa età, Karl un anno di più. Stavamo cercando il cane di Karl, un bastardo, che quella mattina era scomparso.