Così ho pensato stanotte, nelle buie ore prima dell’alba. E ho pensato anche che Timothy è un altro che certamente fallirà, perché non è capace — o non ha voglia — di raggiungere la necessaria introflessione. Lui è prigioniero del suo stesso atteggiamento sprezzante; a tal punto disprezza la Confraternita e i suoi riti che riesce a malapena a frenare l’impazienza. E così non riesce neppure a imparare la necessaria disciplina. Noi meditiamo: lui si limita a guardare.
C’è poi il serio pericolo che uno di questi giorni pigli su e se ne vada: il che, alterando l’equilibrio del Ricettacolo, manderebbe ovviamente a carte quarantotto ogni cosa. Di conseguenza designo nascostamente Timothy per l’adempimento della seconda clausola del Nono Mistero. Non è possibile che lui ottenga ciò che la Confraternita offre; perciò, che soccomba, che venga trucidato a favore degli altri.
Stanotte, mentre giacevo penosamente sveglio, mi è venuta l’idea di portare immediatamente le cose all’acme desiderata: rubare un coltello in cucina, pugnalare Timothy nel sonno, e poi trafiggermi anch’io. Così il Nono Mistero verrebbe adempiuto, e Ned e Oliver avrebbero il loro passaporto per l’eternità.
Mi sono addirittura rizzato a sedere sul letto. Ma al momento critico ho esitato, chiedendomi se era il momento giusto per compiere quanto avevo in animo. Forse il Nono Mistero ha già il suo posto in una ben precisa fase futura del rituale. Forse, intervenendo arbitrariamente adesso senza neppure un segnale da parte dei frati, sciuperei tutto. Se un sacrificio prematuro è privo di utilità, è meglio che io non agisca.
Perciò sono rimasto a letto, e il mio impulso è sparito. Stamattina, pur essendo ancora depresso, ho scoperto che non avevo nessuna voglia di togliermi la vita. Certo, nutro grande sfiducia nei miei confronti; certo, sono molto sgomento per le mie lampanti inadeguatezze assortite; ma lo stesso voglio vivere più a lungo possibile.
Però le prospettive di ottenere la longevità dei frati mi appaiono improvvisamente scarsissime. Credo che nessuno di noi ce la farà. Credo che questo Ricettacolo cadrà in pezzi.
34
Oliver
Oggi, finita l’ora con Fra Miklos, Fra Javier ci ha intercettati in corridoio e ci ha detto: — Dopo mangiato vogliate raggiungermi nella Stanza delle Tre Maschere -. E se n’è andato solennemente per gli affari suoi.
Quell’uomo ha qualcosa di ripugnante, di raggelante: è l’unico frate che preferisco evitare. Occhi da zombi, voce da zombi.
Comunque ho pensato che fosse giunto il momento d’inizio della terapia di cui una settimana fa ci ha parlato lo stesso Fra Javier. E non mi sbagliavo; solo che le cose andranno un po’ diversamente da come me le ero figurate io.
Io avevo immaginato una specie di confessione di gruppo: Ned, Eli, Timothy, io, e magari due o tre frati, tutti seduti in cerchio, e i candidati che a turno si alzano e aprono l’animo davanti all’assemblea, dopodiché commentiamo quanto abbiamo udito, cerchiamo d’interpretarlo in termini dell’esperienza di vita di ciascuno di noi, e così via.
E invece no. Fra Javier ci ha spiegato che noi stessi saremo i confessori l’uno dell’altro, in una serie di colloqui a due.
— Questa settimana — ha detto — avete esaminato la vostra vita, passando in rassegna i segreti più oscuri. Ciascuno di voi porta racchiuso nell’anima almeno un periodo che sa con certezza di non poter confessare a un’altra persona. Il nostro compito è appunto di mettere a fuoco quell’episodio critico.
In sostanza, Fra Javier ci ha chiesto di riconoscere e staccare dagli altri l’episodio più orribile e vergognoso della nostra vita… e poi rivelarlo allo scopo di purificarci da quel peso nocivo. Ha posato in terra il suo ciondolo e l’ha fatto ruotare per stabilire a chi si sarebbe confessato ciascuno di noi.
Risultato: Timothy a me; io a Eli; Eli a Ned; Ned a Timothy. Questa bella ghirlandina sarà completa così, senza comprendere estranei. Non è nelle intenzioni di Fra Javier far diventare di proprietà comune i nostri orrori intimi. Non dovremo raccontare né a lui né a nessun altro quanto verremo a sapere nel corso di queste confessioni vicendevoli. Ciascun membro del Ricettacolo diverrà il custode del grande segreto di un altro membro; ma ciò che confesseremo, ha detto Fra Javier, non andrà più in là del rispettivo confessore. Quel che conta non è il segreto in sé ma il fatto di rivelarlo, di togliersene il peso.
Per evitare il rischio di contaminare la pura atmosfera della Casa dei Teschi liberando tutte in una volta troppe emozioni negative, Fra Javier ha stabilito che le confessioni si faranno una per giorno. Roteando di nuovo il suo ciondolo, ha determinato l’ordine progressivo. Stasera, prima di andare a letto, Ned si sarebbe recato da Timothy. Domani Timothy verrà da me; dopodomani farò la visita a Eli; dopodomani l’altro, Eli chiuderà il circuito confessandosi a Ned.
Questo mi dava circa due giorni e mezzo per decidere quale episodio raccontare a Eli. (Oh, naturalmente sapevo quale avrei dovuto rivelare. Era ovvio). Ma ho subito scartato, a mano a mano che mi venivano in mente, vari episodi sostitutivi: non erano altro che deboli schermi del vero episodio, fragili pretesti per nascondere l’unica scelta necessaria. L’opzione disponibile era una sola, uno solo il punto focale di vergogna e di colpa.
Non sapevo come avrei affrontato la sofferenza di confessare una cosa simile; ma quella — e solo quella — era la cosa che dovevo rivelare, e speravo che al momento di rivelarla la sofferenza se ne sarebbe andata, benché ne dubitassi moltissimo.
Ma di questo mi preoccuperò a tempo debito, mi sono detto. E ho provveduto a bandire dalla mia mente l’intero problema. Suppongo che questo sia un esempio tipico di quella che gli psicanalisti chiamano repressione. Entro sera ero riuscito a dimenticare tutto ciò che si riferiva al programma di Fra Javier.
Ma poco fa — è notte fonda — mi sono svegliato in un bagno di sudore: stavo sognando che confessavo a Eli ogni cosa.
35
Timothy
Ned entra nella mia stanza, tutto impettito, ammiccando, con un sorrisetto sciocco. Quando ha qualcosa che lo turba davvero, assume sempre quell’aria da pagliaccio.
— Perdonami, padre, perché ho peccato — dice, quasi salmodiando. Strascicando i piedi. Dimenandosi. Sogghignando. Stralunando gli occhi. È chiaramente sconvolto, e capisco che a sconvolgerlo è questa faccenda della confessione. Dopo tutto questo tempo, si è risvegliato in lui l’antico gesuita.
Ned vuole sputar fuori i suoi segreti, e io dovrei essere la sua sputacchiera. Di colpo il pensiero di dovermene star qui ad ascoltare qualche sua lubrica storia di omosessuali mi dà la nausea. Perché diavolo dovrei accogliere le sue penose confidenze? E io chi sono, comunque, da avere il diritto di udire le confessioni di Ned?
Gli domando: — Hai davvero intenzione di rivelarmi il grande segreto della tua vita?
Appare sorpreso. — Certo che l’ho.
— Sei obbligato a farlo?
— Se sono obbligato? Timothy, dobbiamo farlo. E comunque lo voglio. — Sì, lo vuole senz’altro. Trema, si agita, è tutto rosso in faccia e pieno di fervore.
— Che ti succede, Timothy? La mia vita privata non t’interessa?
— No.
— Male. Non volevi sempre sapere tutto, sugli esseri umani?
— Questa è una cosa che non voglio sapere. Non mi serve.
— Peccato, amico mio, perché devo proprio dirtela. Fra Javier assicura che liberarsi delle colpe segrete è essenziale per il prolungamento del soggiorno terreno; perciò voglio fare un bel repulisti.
— Se è davvero necessario… — borbotto, rassegnandomi all’inevitabile.
— Mettiti comodo, Timothy. E spalanca bene gli orecchi. Non hai altra scelta che starmi a sentire.