— Non sei tenuto a farlo.
— Fra Javier ha detto di sì.
— E che valore ha, per te; quello che ha detto lui? Se non vuoi raccontare niente, non raccontare niente.
— Fa parte del rituale.
— Ma tu non ci credi, nel rituale. E comunque, visto che domattina te ne vai, non hai mica bisogno di fare quello che ti ha ordinato Fra Javier.
— Ho forse detto che me ne vado?
— Hai detto che vuoi andartene.
— Ho detto che ho voglia di andare, non che me ne andrò. Non è mica la stessa cosa. Comunque non ho ancora preso una decisione.
— Rimani o non rimanere, come preferisci. Confessati o non confessarti, come preferisci. Ma se non hai intenzione di fare quello che Fra Javier ti ha mandato qui a fare, vorrei che tu uscissi e mi lasciassi dormire in pace.
— Non pungolarmi, Oliver. Non mettermi fretta. Non posso agire con la rapidità che vorresti.
— Hai avuto tutto il giorno per decidere se venire a confidarti con me oppure no.
Timothy ha fatto segno di sì; poi si è piegato in avanti, nascondendo la testa fra le ginocchia, ed è rimasto a lungo così, in silenzio.
La mia irritazione è svanita. Ho capito che lui era in difficolta. Era un Timothy completamente nuovo, per me. Voleva davvero aprirsi, voleva davvero penetrare in questa faccenda della Casa dei Teschi, e tuttavia la disprezzava al punto di non riuscirci. Perciò non gli ho messo fretta.
Infine ha rialzato il capo e ha domandato: — Se ti dico quello che ho da dirti, che garanzia mi dai di non riferirlo a nessuno?
— Fra Javier ci ha ordinato di non ripetere a nessuno quello che veniamo a sapere durante la confessione.
— Certo, ma tu terrai davvero la bocca chiusa?
— Non ti fidi di me, Timothy?
— Non mi fido di nessuno, riguardo a questo. È una cosa che potrebbe rovinarmi. Il frate non scherzava, quando ha detto che ciascuno di noi tiene chiuso dentro di sé qualcosa che non ha il coraggio di portare alla luce del sole. Io ho fatto un sacco di porcherie, certo, ma ce n’è una che è tanto mostruosa da essere quasi santa; un peccato sacro, per così dire. Chiunque mi disprezzerebbe, se la venisse a sapere. Probabilmente anche tu -. Il suo volto si è fatto grigio per la tensione interna. — Non so se ho voglia di parlarne.
— Se non hai voglia, non farlo.
— Sono obbligato.
— Soltanto se segui le regole del Libro dei Teschi. Ma tu non le segui.
— Se volessi seguirle dovrei fare come dice Fra Javier. Non so, non so… Tu non riferiresti assolutamente nulla a Eli, a Ned… a nessuno?
— Assolutamente nulla.
— Vorrei poterti credere.
— In questo non posso aiutarti, Timothy. È come dice Eli: certe cose si possono accettare solo con un atto di fede.
— Forse potremmo fare un patto — ha detto Timothy sudando, con un’aria disperata. — Io ti racconto il mio segreto e tu mi racconti il tuo, così avremo tutt’e due qualcosa con cui garantirci che non ci saranno pettegolezzi da parte dell’altro.
— Chi deve ascoltare la mia confessione è Eli. Non tu. Eli.
— Niente patto, allora?
— Niente patto.
È rimasto di nuovo in silenzio, per un tempo ancora più lungo di prima. Infine ha sollevato gli occhi, e il suo sguardo mi ha spaventato. Si è inumidito le labbra e ha mosso la mandibola, ma dalla bocca non gli è uscita mezza parola. Sembrava sull’orlo del panico, e una parte del suo terrore si stava insinuando in me: mi sentivo diventare teso e nervoso, avvertivo una specie di prurito, mi rendevo sgradevolmente conto della cappa ardente che calava su di noi.
Poi Timothy è riuscito a tirar fuori la voce. — Tu hai conosciuto mia sorella — ha detto.
Non era una domanda. Sua sorella l’ho vista parecchie volte, quando sono andato a casa di Timothy per le vacanze di Natale. Due o tre anni più giovane di lui, una biondina tutta gambe, davvero bella ma non eccezionalmente intelligente: una specie di Margo ma senza la personalità di Margo. Alunna del signorile Istituto Wellesley, è una di quelle solite ragazze tipo tè di beneficenza, che praticano tennis e golf ed equitazione. Ha un bel corpo, ma io non la trovo attraente perché mi smontano la sua sciocca vanità, la sua ricchezza, la sua aria da verginella «nontoccatemi».
Dubito che le vergini siano molto interessanti. Questa qui dà la netta impressione di essere ben al disopra di cose rozze e volgari come il sesso. Me la figuro a pigolare al fidanzato, con la sua voce affettata: "Oh, caro, non essere così grossolano!" mentre quel poveraccio cerca d’infilarle la mano nella camicetta.
E dubito anche di averla interessata più di quanto lei abbia interessato me: il fatto che sono del Kansas mi dà ai suoi occhi il marchio del contadino, e mio padre non era iscritto ai giusti club e io non sono membro della giusta Chiesa. Fin dalla prima volta che mi ha visto, la mia totale mancanza di credenziali dell’aristocrazia mi ha collocato in quella vasta categorìa di esseri umani di sesso maschile che le ragazze del suo stampo non prendono minimamente in considerazione come potenziali cavalieri o amanti o mariti. Per lei io ero pari a un qualsiasi giardiniere o mozzo di stalla.
— Sì, l’ho conosciuta — ho risposto a Timothy. Lui mi ha fissato per un attimo interminabile.
— Quando ero all’ultimo anno di liceo — ha detto, con una voce arrugginita e cavernosa come una tomba vuota — l’ho violentata. L’ho violentata, Oliver!
Presumibilmente Timothy, dopo aver svelato il suo terribile segreto, si aspettava che il cielo si squarciasse e un lampo si abbattesse su di lui. O almeno si aspettava che io facessi un salto indietro, coprendomi gli occhi e gridando che le sue spaventose parole mi avevano sconvolto in fondo all’anima.
In effetti sono rimasto un po’ sorpreso, per due motivi: primo, che proprio Timothy si fosse immischiato in una sporca faccenda di quel genere; secondo, che fosse riuscito nel suo intento senza subire conseguenze immediate, quali una buona dose di frustate da parte dei familiari accorsi alle urla di sua sorella. E poi ho dovuto ridimensionare l’immagine che mi ero fatto di lei, sapendo ora che il suo grembo altezzoso era stato arato dal vomere di suo fratello.
Ma a parte questo non ero quel che si dice sbalordito. Dalle mie parti, la noia induce sempre i giovanotti all’incesto e anche peggio; e anche se io personalmente non mi sono mai fatto mia sorella, conosco un sacco di ragazzi che si sono fatti la loro. Se non ho messo le mani addosso a Sis non è stato per un tabù tribale ma per semplice mancanza d’inclinazione.
Comunque è chiaro che per Timothy si trattava di una faccenda seria. Ho mantenuto un silenzio rispettoso, assumendo un’espressione grave e turbata, e lui mi ha raccontato tutta la storia.
All’inizio si fermava ogni due parole, chiaramente imbarazzato, sudando e incespicando e balbettando, come Lyndon Johnson in procinto di spiegare davanti a un tribunale per i crimini di guerra la sua linea di condotta nei riguardi del Vietnam. Ma dopo poco le parole hanno preso a scorrergli veloci, come se in precedenza Timothy avesse ripetuto più volte quella storia nell’intimità della sua mente, provandola e riprovandola al punto che ormai — superato l’intoppo dell’esordio — la narrazione era diventata automatica.
Il fattaccio, ha detto, è accaduto esattamente quattro anni fa, quando sia lui che lei erano tornati a casa dal rispettivo collegio per le vacanze di Pasqua (a quell’epoca il mio primo incontro con Timothy era ancora lontano cinque mesi nel futuro). Lui aveva diciott’anni, e lei quindici e mezzo. Non erano mai andati molto d’accordo: quando discutevano, finiva sempre che lei gli tirava fuori la lingua e lo piantava lì. Lui la giudicava insopportabilmente mocciosa e affettata, e lei lo giudicava insopportabilmente villano e rozzo.