Era una stagione difficile, nella vita di Timothy. All’Istituto Andover era il numero uno, ammirato da tutti, eroe del rugby, capoclasse, simbolo riconosciuto di virilità e di savoir faire, ma dopo un paio di mesi avrebbe preso il diploma, e l’intero prestigio là accumulato si sarebbe ridotto a un nulla una volta che lui fosse diventato una delle tante matricole di una grande università di fama mondiale. A questa idea, Timothy era addirittura traumatizzato.
Inoltre aveva in ballo una relazione intensa (e costosa, data la distanza) con una ragazza più anziana di lui di un paio d’anni, che studiava alla Radcliffe di Cambridge, nel Massachusetts: lui non l’amava (lo faceva solo per prestigio, per poter dire che andava a letto con un’universitaria), ma era abbastanza sicuro che lei l’amasse. Poco prima di Pasqua aveva appreso per caso che lei lo considerava una divertente bestiolina domestica, una specie di trofeo liceale da esibire ai suoi innumerevoli amichetti della Harvard: in breve, il suo atteggiamento nei confronti di Timothy era ancora più cinico di quello di Timothy nei confronti suoi.
Perciò quella primavera Timothy se ne tornò a casa sentendosi un bel po’ abbacchiato", il che per lui era una novità. Ma subito si gettò alla riscossa. Nella sua città natale c’era una ragazza che lui amava. Non so bene che cosa intenda Timothy con «amore»; ma credo che applichi questo termine a qualsiasi ragazza che corrisponda al suo concetto di bellezza, denaro, nascita, e che non accetti di andare a letto con lui: ciò la rende inaccessibile, la colloca su un piedestallo, e così lui si convince di «amarla». Un atteggiamento donchisciottesco, in un certo senso.
Questa ragazza aveva diciassette anni, si era appena vista accettare la domanda di ammissione alla Bennington, apparteneva a una famiglia più o meno pari in lignaggio a quella di Timothy, era un’amazzone di livello olimpionico, e a sentir lui aveva un fisico da ragazza-Playboy dell’anno. Iscritti entrambi al medesimo circolo sportivo. Fin dalla prima adolescenza erano compagni di danza e di golf e di tennis; tuttavia gli occasionali tentativi di Timothy di conseguire un’amicizia più intima erano stati espertamente sventati. Timothy era talmente ossessionato da questa ragazza da pensare che avrebbe finito con lo sposarla, e s’illudeva che lei l’avesse già scelto in cuor suo come marito; perciò, ragionava, lei non gli consentiva di metterle le mani addosso perché sapeva che lui era fondamentalmente uno di quegl’individui dalla doppia morale e quindi temeva che lui l’avrebbe classificata «da non sposare» se l’avesse posseduta così presto.
I primissimi giorni che Timothy era a casa le telefonò ogni pomeriggio. Conversazioni amichevoli, compite, distaccate. Lei non sembrava disposta a un abboccamento da sola a solo (nel loro ambiente non è una cosa molto abituale), ma gli disse che si potevano vedere al circolo sportivo, alla festa da ballo del sabato sera. Timothy cominciò a nutrire grandi speranze. Una festa da ballo al circolo era uno di quei trattenimenti convenzionali in cui bisognava continuare a cambiare dama, ma negl’intervalli fra una danza e l’altra ci si poteva sbaciucchiare negli angolini a ciò destinati ufficialmente.
A metà serata Timothy riuscì a condurre la ragazza in uno di quegli angolini; pur essendo ancora ben lontano dal penetrare negli angolini di lei, poté andare più in là di quanto aveva combinato fino allora: lingua nella bocca, mano sul reggiseno. E gli parve di scorgerle negli occhi un certo luccichio.
La volta successiva che ballò con lei, l’invitò a fare due passi: anche questo era previsto dal rituale del circolo sportivo. Fecero dunque i loro bravi due passi, sotto gli occhi degli altri. Poi Timothy propose di scendere alla rimessa delle barche. In quell’ambiente, «andare alla rimessa» è un’espressione in codice che significa scopare.
Scesero alla rimessa delle barche. Le dita di lui strisciarono anelanti su per le frigide cosce di lei. Il palpitante corpo di lei cominciò a fremere sotto le carezze di lui. Il suo focoso palmo gli strofinò il turgido davanti dei pantaloni.
Timothy, come un toro impazzito, l’afferrò con l’intenzione d’inchiodarla seduta stante… e lei, con la bravura di una campionessa olimpionica di verginità, gli diede una verginale ginocchiata nelle palle, salvandosi all’ultimissimo minuto da stupro certo. Dopo avergli rivolto alcune osservazioni di prima scelta sulle sue abitudini brutali, se ne andò come una furia piantandolo lì stupefatto e intontito nella gelida rimessa.
Timothy aveva un violento dolore all’inguine e una collera violenta in testa. Cos’avrebbe fatto, in una situazione simile, un giovane americano di sangue caldo? Ciò che fece Timothy fu di rientrare barcollando nel circolo, agguantare nel bar una bottiglia di bourbon quasi piena, e trascinarsi fuori nella notte, sentendosi al tempo stesso furibondo e infelice. Dopo aver trangugiato metà liquore balzò nella sua piccola e lustra Mercedes sportiva e filò a casa a più di cento all’ora, poi si fermò in garage a finire il bourbon; poi, ubriaco fradicio e fuori di sé dall’ira, salì al piano di sopra, irruppe nella verginale camera da letto della sorellina, e si gettò addosso a quella poveraccia.
Lei si dibatté, supplicò, pianse, ma Timothy era forte per dieci e nulla l’avrebbe fatto desistere dal suo proposito. Lei era una ragazza, era una puttana, e lui l’avrebbe violentata. Non vedeva la minima differenza fra la voluttuosa provocatrice che l’aveva piantato nella rimessa e la propria altezzosa sorella: entrambe erano puttane, tutte erano puttane, e lui voleva saldare subito i conti con l’intera tribù delle femmine.
La tenne schiacciata giù con ginocchia e gomiti. — Se gridi — le disse — ti spezzo il collo -. Faceva sul serio, perché in quel momento era fuori di sé; e anche la sua tremante sorellina lo sapeva. I pantaloni del pigiama vennero strappati via. Soffiando dalle froge, lo stallone si gettò con violenza contro la tenera barriera di lei.
— Non credo neppure che fosse vergine — mi ha detto Timothy. — Sono entrato dentro come niente.
In pochi secondi era tutto finito. Poi lui si staccò ed entrambi rimasero lì tremanti, l’uno di sollievo e l’altra di orrore; e lui l’avvisò che non le conveniva raccontare la faccenda ai loro genitori perché probabilmente non le avrebbero creduto, e se chiamavano un medico per la constatazione ci sarebbero stati certamente dei pettegolezzi, e una volta che questi avessero cominciato a spargersi per la città le avrebbero mandato in fumo per sempre ogni possibilità di fare un matrimonio adeguato.
Lei si limitò a fissarlo. Timothy non aveva mai visto uno sguardo così carico di odio.
Si diresse alla propria stanza, cadendo un paio di volte. Quando si destò, sul tardo pomeriggio del giorno seguente, era di nuovo lucido: fu sopraffatto dal terrore all’idea che da basso l’aspettasse la polizia. Ma c’erano soltanto suo padre, la sua matrigna, e la servitù. Nessuno si comportò come se fosse successo qualcosa d’insolito. Suo padre gli sorrise e gli domandò com’era andata la festa. Sua sorella era uscita con amici.
Non fece ritorno che all’ora di cena. Aveva un’aria normalissima e salutò Timothy con l’abituale cenno del capo, freddo e distante. Più tardi lo prese in disparte e gli disse, con una, voce tanto minacciosa da essere terrificante: — Se ti provi un’altra volta a farmi una cosa del genere, ti giuro che ti becchi una coltellata nelle palle.
Fu la prima e l’ultima volta che accennò al misfatto del fratello. Nei quattro anni trascorsi da allora non ne ha più parlato, almeno non a lui ma probabilmente a nessun altro: è chiaro che ha sigillato l’episodio in un remoto angolino della mente, classificandolo come la disavventura di una sera. Io stesso posso testimoniare che ha sempre conservato una superficie perfettamente glaciale, tenendo fede al ruolo di vergine sempiterna che si era prefissa.