Quella confessione gli costava un enorme sacrificio: l’avevo capito subito fin da quando era entrato nella mia camera — mascelle e labbra serrate, tutto stranamente rigido come non l’avevo mai visto prima di allora — e aveva iniziato, esitando e divagando, il racconto di un giorno di tarda estate nei boschi del Kansas, quando era ragazzo.
A mano a mano che la narrazione procedeva io avevo cercato di prevederne gli sviluppi e di conseguenza il punto critico. Evidentemente Oliver aveva tradito in qualche modo la fiducia di Karl, immaginavo. L’aveva imbrogliato nella divisione del bottino? Gli aveva rubato delle munizioni mentre l’altro gli voltava le spalle? Gli aveva sparato durante una lite, uccidendolo e dicendo al giudice che era stato un incidente? Nessuna di queste possibilità mi persuadeva; ma non ero certo preparato alla piega improvvisa degli eventi, alla mano che saliva su per la coscia, all’abile opera di seduzione. Lo sfondo campagnolo — i fucili, la partita di caccia, i boschi — mi aveva fuorviato: la mia ingenua immagine di quel che significa crescere nel Kansas non lasciava posto per avventure omosessuali e altre manifestazioni di quello che per me è un genere puramente urbano di decadenza. E invece ecco il Karl, il virile cacciatore, che circuiva il giovane e innocente, Oliver; ed ecco qui davanti a me un Oliver più anziano, che tirava fuori riluttanti parole dalle viscere.
Ma poi le parole si sono fatte meno riluttanti; e Oliver è rimasto catturato dal ritmo stesso della sua narrazione: benché la sua angoscia non sembrasse attenuata, la descrizione ha assunto un flusso più copioso, come se lui avesse provato di colpo una specie di orgoglio masochista nel rivelarmi quell’episodio. Non era più una confessione ma un atto di mortificazione.
E il racconto è andato avanti inesorabilmente, arricchito di particolari pittoreschi. Oliver ha descritto la sua timidezza e ritrosia virginale, il suo graduale soccombere alle bramose argomentazioni di Karl, il momento critico in cui la sua mano tremante si era posata sul corpo dell’amico.
Non mi ha risparmiato nulla. Ho appreso che Karl non era circonciso; e casomai non mi fossero familiari le implicazioni anatomiche, Oliver mi ha spiegato chiaramente l’aspetto di un membro non circonciso, sia eretto che flaccido. Mi ha parlato inoltre delle manovre manuali e del suo apprendistato nei piaceri orali, e alla fine mi ha illustrato il quadro dei due nerboruti giovanotti avvinghiati in un’elaborata copulazione accanto allo stagno.
Nelle sue parole vibrava lo zelo di un predicatore: lui aveva commesso un abominio, aveva sguazzato nei peccati di Sodoma, aveva macchiato sé e i propri discendenti fino alla settima generazione, tutto in quell’unico pomeriggio di divertimento infantile.
— Benissimo — avrei voluto dirgli. — Benissimo, Oliver, hai fatto l’amore col tuo amico, ma perché ne vuoi tirar fuori una megillah così grossa? Tutti fanno cose del genere con altri maschi, da ragazzi, e tempo fa Kinsey ci ha spiegato che almeno un adolescente maschio su tre arriva all’orgasmo con…
Ma invece non ho detto una sola parola. Quello era il grande amore di Oliver, e io non volevo causare intralci. Quello era il suo trauma deformante, il suo complesso, il demone che lo rodeva, e lui me lo stava squadernando davanti affinché io ne pigliassi visione. Ormai aveva preso l’aire.
Con abbondanza di particolari mi ha trascinato con sé fino alla volata finale; poi si è abbandonato all’indietro, esausto, intontito, col volto che si rilassava e gli occhi che si spegnevano. Aspettando il mio verdetto, immagino. Cos’avrei potuto dirgli? Come avrei potuto permettermi di giudicarlo? Non ho detto nulla.
Qualche attimo di silenzio, poi gli ho domandato: — Cos’è successo, dopo?
— Abbiamo nuotato ancora, ci siamo asciugati e vestiti, abbiamo ricominciato la caccia e siamo riusciti a prendere alcune anitre selvatiche.
— No, intendevo dopo. Fra Karl e te. L’effetto sulla vostra amicizia.
— Mentre tornavamo in città ho detto a Karl che se faceva tanto di avvicinarsi un’altra volta a me gli avrei staccato quella sua fottutissima testa.
— E poi?
— Non ha più cercato di vedermi. Un anno dopo si è arruolato nei marines, mentendo sull’età, ed è andato a farsi ammazzare nel Vietnam.
Mi ha lanciato un’occhiata di sfida, chiaramente aspettandosi un’altra domanda, qualcosa che era convinto che dovevo per forza chiedergli. Ma non avevo altre domande: la morte di Karl, così illogica e fuori luogo, aveva ormai rotto il filo della narrazione.
È seguito un lungo silenzio. Io mi sentivo sciocco, incapace di parlare.
Poi Oliver ha detto: — Quella è stata l’unica volta in vita mia che ho avuto esperienze omosessuali. Assolutamente l’unica volta. Mi credi, vero?
— Certo che ti credo.
— Sarà meglio che tu mi creda sul serio, perché è la verità. C’è stata quell’unica volta con Karl, quando avevo quattordici anni, e basta. Tu capisci, l’unica ragione per cui ho accettato di avere come compagno di stanza un finocchio è che volevo fare una specie di esperimento, volevo vedere se sarei stato tentato, volevo sapere qual era la mia inclinazione naturale, volevo scoprire se quel giorno con Karl era stato un episodio irripetibile o se si sarebbe verificato di nuovo non appena mi si fosse presentata l’occasione. Bene: di occasioni ne ho avute, certo. Ma sono sicuro che tu sai che non mi sono mai messo con Ned. Tu lo sai, vero? Fra Ned e me non è mai sorta la questione di un rapporto fisico.
— Naturalmente.
I suoi occhi si sono fissati sui miei, di nuovo con aria di sfida. Ancora in attesa, Oliver? Di che?
— C’è solo un’altra cosa che devo aggiungere — ha detto.
— Continua, Oliver.
— Una cosa sola. Una piccola postilla ma contiene il succo della storia, perché stabilisce dove sia la colpa. Vedi, Eli, la mia colpa non sta in quello che ho fatto: sta nella mia reazione a quello che ho fatto.
Una risatina nervosa. Un’altra pausa di silenzio. Oliver aveva qualche difficoltà a tirar fuori quest’ultima faccenda. Ha distolto lo sguardo. Credo che rimpiangesse di non aver terminato la confessione cinque minuti prima.
Infine ha ripreso: — Vedi, Eli, io mi sono… divertito, con Karl. Ne ho ricavato un piacere autentico. Forse il più grande in tutta la mia vita. Mi è sembrato che l’intero corpo mi stesse esplodendo. Non c’è stata una seconda volta perché sapevo che non è una cosa giusta. Però avrei desiderato che ci fosse. L’ho sempre desiderato. Lo desidero tuttora -. Stava tremando. — Ho dovuto lottare contro questo desiderio, ogni minuto della mia vita, ma fino a pochi momenti fa non mi sono mai reso conto di quanto sia dura questa lotta. Ecco, Eli, ho finito. Questo è tutto. Tutto quello che dovevo dire.
38
Ned
Entra Eli, grave in volto, ammantato di tetraggine da rabbino, con le spalle cadenti: l’autentica personificazione del Muro del Pianto, duemila anni di sofferenze che gli gravano sulla schiena.
Eli è abbacchiato. Veramente abbacchiato. Ci siamo accorti tutti di quanto gli fa bene il genere di vita che si conduce qui alla Casa dei Teschi: fin dal primo giorno gli è venuta una bella cera, che si è fatta sempre più lustra. Non l’ho mai visto così in forma.
Ma adesso non lo è più. Una settimana fa ha cominciato a scendere di giri, e questi pochi giorni di confessioni sembra che l’abbiano spinto in fondo all’abisso. Sguardo abbattuto, muso lungo. La bislacca smorfia dello scoramento, dell’autodisprezzo. Irradia gelo da tutta la persona. È un veh-is-mir fatto carne. Che ti rode, caro Eli?