Un’associazione di profughi paga le spese del funerale. Salta fuori un nipote, misteriosamente mai citato prima, e porta via verso un destino ignoto tutti i libri e i manoscritti. Eli rimane solo con le sue fotocopie. E ora? In che modo può essere il tramite mediante il quale l’umanità verrà a conoscenza di quest’opera? Ah! Il concorso per la borsa di studio!
Eli si attacca alla macchina per scrivere, un’ora dopo l’altra, come posseduto. Nella sua mente, la distinzione fra lui stesso e il defunto amico si fa sempre più incerta. Avevano fatto un patto di collaborazione: per mio tramite, pensa, Eli, questo grand’uomo parlerà dalla tomba.
Il saggio viene terminato, e nella mente di Eli non sussiste il minimo dubbio sul suo valore: si tratta di un capolavoro assoluto. In più, Eli ha la grande gioia di sapere che in tal modo ha salvato l’opera di uno studioso rimasto ingiustamente oscuro.
Invia alla commissione esaminatrice del concorso le sei copie prescritte; in primavera arriva la raccomandata in cui gli si comunica che ha vinto; viene convocato in una sala rivestita di marmo dove riceve una pergamena, un assegno per una somma che lui non riesce nemmeno a concepire, e le eccitate congratulazioni di uno stuolo di professoroni illustri. Poco dopo giunge la prima richiesta di collaborazione da parte di una rivista specializzata. Ha inizio la sua carriera.
Soltanto in seguito Eli si accorge che nel suo saggio ha completamente dimenticato — chissà come — di nominare l’autore sulla cui opera si basano le sue teorie. Non un riconoscimento, non una nota in calce, non una sola citazione.
Eli rimane confuso per questo errore di omissione, ma immagina che sia troppo tardi per rimediare; e senz’altro lo è qualche mese dopo, quando il saggio viene pubblicato e ne comincia l’esame da parte degli studiosi… Eli vive nel terrore che da un momento all’altro salti fuori un vecchio romeno, mostrando una serie di fascicoli di un’oscura rivista pubblicata a Bucarest prima della guerra e gridando che quel giovanotto impudente ha spudoratamente saccheggiato il pensiero del suo illustre e compianto collega, il povero dottor Nicolescu. Ma non salta fuori nessun romeno, nessuna accusa. Il saggio viene universalmente accettato come opera di Eli, e all’avvicinarsi degli esami di diploma parecchie università di grido gareggiano per avere l’onore di contare Eli fra i propri studenti.
E questo squallido episodio, dice Eli a conclusione del suo racconto, può ben simboleggiare l’intera sua vita intellettuale: tutto contraffatto, niente profondità di pensiero, idee chiave rubate ad altri. Finora ha potuto tirare avanti grazie alla sua abilità di comporre estratti di cose altrui camuffandoli da opere originali, e grazie a una certa capacità innegabile di assimilare la sintassi delle lingue arcaiche; ma non ha dato nessun contributo autentico all’umano sapere, il che sarebbe perdonabile — data la sua età — se lui non si fosse fraudolentemente guadagnato la prematura reputazione di essere il più acuto pensatore dopo Benjamin Whorf nel campo della linguistica.
E invece cos’è, in realtà? Un golem, un orpello, una Disneyland ambulante di filologia. Ora si attendono da lui miracoli d’intuizione; ma che cosa può dare? Non gli è rimasto da offrire più nulla, mi dice con amarezza. L’ultimo manoscritto del romeno l’ha già sfruttato molto tempo fa.
Cala un silenzio immane. Io non riesco neppure a guardare in faccia Eli. Questa è stata più che una confessione: è stato un hara-kiri. Eli si è autodistrutto davanti ai miei occhi.
Certo, io ho sempre sospettato della presunta profondità di pensiero di Eli: benché non ci siano dubbi sull’acutezza della sua mente, le sue «intuizioni» mi hanno dato sempre l’impressione di essere di seconda mano. Tuttavia non ho mai immaginato questa faccenda, questo furto, questa impostura.
Che cosa potrei dirgli, ora? Dovrei far schioccare la lingua, come un prete, e dirgli: — Sì, bambino mio, hai commesso un peecato orribile? — Lo sa benissimo. Dovrei dirgli che Dio lo perdonerà perché Dio è amore? Non ci credo neanch’io. Forse potrei parafrasare Goethe e dirgli: ci si può sempre redimere dal peccato compiendo opere buone. Eli, bonifica paludi e costruisci ospedali e scrivi qualche brillante saggio che sia farina del tuo sacco, e tutto finirà bene.
E lui se ne sta lì ad aspettare l’assoluzione, ad aspettare il Verbo che lo libererà dal giogo. Ha il volto inespressivo, gli occhi devastati. Vorrei che avesse confessato un banale peccatuccio di carne.
Oliver ha scopato l’amico, nulla più: un peccato che per me non è tale ma soltanto un bel giochetto piacevole; pertanto l’angoscia di Oliver era irreale, il semplice prodotto del conflitto fra i naturali desideri del suo corpo e il condizionamento imposto dalla società. Nell’Atene di Pericle, Oliver non avrebbe avuto niente da confessare.
Il peccato di Timothy, qualunque sia, è certamente qualcosa di altrettanto superficiale, in deroga non a leggi etiche universali ma a tabù tribali circoscritti a un determinato ambiente: forse ha dormito con una servetta, forse ha spiato un amplesso dei genitori.
La mia colpa è più complessa, perché io ho gioito della rovina altrui e forse addirittura l’ho causata, ma in ultima analisi è una cosa di poco conto piuttosto inconsistente.
Ma il peccato di Eli è un altro paio di maniche. Se al centro della brillante carriera di Eli come studioso c’è soltanto il plagio, allora dentro di lui non c’è nulla: Eli è vuoto, è fatto solo di crosta superficiale; e quale assoluzione potrebbe essergli offerta, per questo?
Bene: Eli mi ha fatto la sua brava truffa, all’inizio della serata, e adesso sono costretto a truffare anch’io.
Mi alzo, mi accosto a lui, gli prendo le mani nelle mie, lo faccio alzare in piedi, e pronuncio quelle che per lui sono parole magiche: contrizione, penitenza, perdono, redenzione. Procedi sempre verso la luce, Eli.
Nessuna anima è dannata per l’eternità. Lavora sodo, applicati con zelo, sforzati di comprendere te stesso, e vedrai che alla fine otterrai la misericordia divina; infatti la tua debolezza ti viene da Lui, e se Gli mostrerai che sei capace di superarla non riceverai da Lui nessun castigo.
Eli, con un’aria assente annuisce alle mie parole. Poi esce definitivamente dalla mia camera.
Io penso al Nono Mistero, mi domando se vedrò mai più Eli vivo.
Mi metto a camminare su e giù per la stanza. Cammino e cammino a lungo, covando turpi propositi.
Infine Satana m’infiamma e io mi precipito da Oliver.
39
Oliver
— So tutto — dice Ned. — Tutto quanto. — Mi sorride con aria vergognosa. Sguardo dolce, da vacca, fisso nel mio. — Non devi aver paura di essere quello che sei, Oliver. Non devi. Non capisci quant’è importante conoscere se stessi, penetrare nella propria testa fin dove è possibile giungere e quindi agire in base a quello che vi si è trovato? E invece c’è un sacco di gente che innalza stupidi muri fra sé e il proprio Io, muri fatti di inutili astrazioni. Un sacco di non puoi qui e non puoi là. Perché? Di che utilità è tutto questo?
Il volto gli brilla. Un tentatore, un diavolo. Eli gli deve aver spifferato ogni cosa. Karl e io, io e Karl. Vorrei spaccargli la faccia, a Eli.
Ned mi gira intorno sogghignando, con movenze feline, come un pugile in procinto di balzare all’attacco. Tiene la voce bassa, quasi su un tono monocorde.
— Dài, Ol. Lasciati andare. LuAnn non lo saprà. Io sono muto come una tomba. Andiamo, Ol, facciamolo, facciamolo! Non siamo mica degli estranei. Abbiamo tenuto le distanze per troppo tempo. C’è il tuo Io che vuole venir fuori, Oliver, il tuo vero Io lì dentro di te, e questo è il momento buono perché tu lo lasci uscire. Vuoi, Ol? Vuoi? Adesso? Ecco qui la tua occasione. Eccomi qui.