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— Timothy?

Non si ferma.

— Timothy, dove vai? Rispondi, Timothy.

Si volta. Mi guarda con gelido disprezzo e dice: — Sto smammando, caro mio. E tu perché cavolo ti nascondi qui, a quest’ora del mattino?

— Non puoi andartene.

— Ah no?

— Manderesti in pezzi il Ricettacolo.

— Ma che vada a farsi fottere, il Ricettacolo! Credi che io voglia passare il resto della vita in questo rifugio per deficienti irrecuperabili? — Scuote il capo, e la sua espressione si fa meno dura. — Eli, ascolta, rientra in te. Tu qui stai solo cercando di vivere una fantasia. Non può funzionare. Dobbiamo ritornare nel mondo reale.

— No.

— Quei due sono un caso disperato, ma tu puoi ancora ragionare, forse. Vieni con me: faremo colazione a Phoenix e prenderemo il primo aereo per New York.

— No.

— È la tua ultima possibilità.

— No, Timothy.

Fa una spallucciata, si gira di nuovo. — Benissimo. Rimani pure con quei pazzi dei tuoi amici. Io me ne vado!.

Resto come impietrito mentre lui attraversa lo spiazzo, passa fra due dei piccoli teschi neri che recingono in fila lo spiazzo stesso, e si avvicina all’inizio del viottolo.

Non ho modo di convincerlo. Questo momento era inevitabile fin dall’inizio: Timothy non è come noi, difetta dei nostri traumi e delle nostre motivazioni, non lo si sarebbe mai potuto sottoporre all’intero programma dell’Iniziazione.

Per un lungo istante considero le alternative e cerco di mettermi in comunione con le forze che guidano il destino di questo Ricettacolo. Domando se è venuto il momento giusto, e la risposta è: sì, il momento è venuto.

Corro dietro a Timothy. Giunto alla fila di teschi m’inginocchio un attimo e ne tiro su uno da terra: devo reggerlo a due mani peserà dieci o quindici chili. Riprendo la corsa e arrivo alle spalle di Timothy proprio dove inizia il viottolo.

In un unico movimento aggraziato sollevo il teschio di pietra e con tutta la forza lo spingo in avanti contro la nuca di Timothy, e attraverso la sfera di basalto le dita mi trasmettono la sensazione di un osso che si spezza.

Timothy cade, senza un grido. Il teschio di pietra è insanguinato: apro la mano, e il teschio piomba al suolo e rimane dove ha battuto. I biondi capelli di Timothy sono chiazzati di rosso, e la macchia rossa si allarga con sorprendente rapidità.

Adesso è necessario che trovi dei testimoni, mi dico, e che richieda gli opportuni riti. Mi giro verso la Casa dei Teschi.

I testimoni ci sono già. Davanti alla facciata dall’edificio stanno Ned, nudo, e Fra Antonio, nei suoi soliti calzoncini azzurro stinto.

Mi avvio verso i due. Ned annuisce: ha assistito all’intera scena.

M’inginocchio di fronte a Fra Antonio; lui posa la gelida mano sulla mia fronte che scotta, e dice dolcemente: — Il Nono Mistero è questo: il prezzo di una vita non può mai essere altro che una vita. Sappi, o nobile di nascita, che le eternità devono essere controbilanciate dalle estinzioni.

Una pausa, poi aggiunge: — Come, vivendo, moriamo giorno per giorno, così, morendo, vivremo per sempre.

41

Ned

Cerco di convincere Oliver a dare una mano nel compito di seppellire Timothy, ma lui se ne sta tutto imbronciato nella sua camera, come Achille nella propria tenda, e così il lavoro ricade interamente su Eli e me. Oliver non vuole aprire la porta, non si degna neanche di rispondere con un grugnito scontroso al mio bussare; allora lo pianto lì e raggiungo il gruppo radunato all’esterno dell’edificio.

Eli, in piedi accanto al corpo di Timothy, ha un aspetto serafico, trasfigurato: raggiante, quasi. Volto arrossato, corpo luccicante di sudore alla luce mattutina. Intorno a lui stanno quattro frati, i quattro Custodi: Fra Antonio, Fra Miklos, Fra Javier, Fra Franz. Sono tranquilli, sereni: sembrano compiaciuti di quanto è successo. Fra Franz ha portato degli attrezzi da becchino, picconi e badili. Il luogo della sepoltura, dice Fra Antonio, è a poca distanza nel deserto.

Forse per motivi di purezza rituale, i frati si guardano bene dal toccare il cadavere. Da parte mia, dubito che Eli e io da soli possiamo riuscire a trasportare Timothy per più di dieci metri; ma Eli non si lascia scoraggiare. S’inginocchia, accavalla uno sull’altro i piedi di Timothy, ficca una spalla sotto i polpacci del morto, e mi fa segno di afferrare Timothy dall’altra estremità.

Issa! Barcollando un poco; stacchiamo e solleviamo dal suolo quella massa inerte di cento chili. Iniziamo la marcia verso il luogo di sepoltura, con Fra Antonio che fa strada e gli altri tre frati che presumibilmente si accodano.

Benché l’alba non sia sorta da molto, il calore del sole è già spietato: lo sforzo di trasportare quel tremendo fardello attraverso la luccicante foschia del deserto mi fa sprofondare in uno stato quasi allucinatorio. I miei pori si aprono, le ginocchia mi tremano, gli occhi non riescono più a mettersi a fuoco e sulla gola sento una mano invisibile che stringe.

Come se qualcuno avesse filmato l’evento di poco fa e ora ne proiettasse la registrazione, rivedo tutto il procedere del grande momento di Eli: al rallentatore, e addirittura — negl’istanti critici — a fotogramma fermo.

Vedo Eli che corre, Eli che si china a raccogliere il pesante globo di basalto, Eli che insegue di nuovo Timothy, Eli che raggiunge Timothy, Eli che descrive il movimento di un lanciatore di peso, i muscoli del fianco destro di Eli che spiccano in straordinario rilievo, Eli che allunga il braccio con una movenza mirabilmente fluida come se volesse bussare con delicatezza alla spalla di Timothy ma invece abbattendogli il teschio di pietra contro il cranio, Timothy che si accartoccia, Timothy che si affloscia al suolo, Timothy che giace immobile.

E un’altra volta da capo, e ancora, e ancora, in una magica proiezione automatica. L’inseguimento, l’assalto, lo schianto.

A queste scene si sovrappongono, come fantomatici veli di garza, altre immagini familiari di morti violente: il volto stupefatto di Lee Harvey Oswald mentre gli si avvicina Jack Ruby, la sagoma accartocciata di Bobby Kennedy sul pavimento della cucina, le teste mozze di Mishima e dei suoi compagni deposte per benino dietro la scrivania del generale, il soldato romano che infilza con la lancia il corpo appeso alla Croce, il vistoso fungo che si dilata sopra Hiroshima.

E poi di nuovo Eli, di nuovo la traiettoria dell’antico oggetto tondeggiante, di nuovo lo schianto. Stop. Fotogramma fermo. Poeticità della conclusione.

Incespico e sono sempre lì lì per cadere: ma la bellezza di quelle immagini mi sostiene, riversandomi energie fresche nelle articolazioni scricchiolanti e nei muscoli indolenziti, cosicché io rimango ritto mentre arranco da bravo beccamorto sul terreno alcalino che si sbriciola sotto i miei passi vacillanti. Come, vivendo, moriamo giorno per giorno, così, morendo, vivremo per sempre.

— Siamo arrivati — annuncia Fra Antonio.

È un cimitero, questo? Non vedo tumuli, lapidi, niente. Solo un campo vuoto disseminato a casaccio di quelle basse e grigie piante dalle foglie coriacee che sono tipiche delle regioni aride.

Allora osservo più attentamente, con quel singolare affinamento delle percezioni indotto dalla spossatezza, e scorgo certe irregolarità del terreno: qui un’area che sembra affondata di qualche centimetro, là un’altra che appare sopraelevata rispetto al resto, come se in questo campo fosse stato fatto davvero qualche intervento.

Con grande cautela deponiamo a terra Timothy. Scaricato il suo corpo, il mio sembra innalzarsi nell’aria per la reazione di sollievo: quasi quasi giurerei che i piedi mi si sono staccati effettivamente dal suolo. Le gambe mi tremano, le braccia si alzano di conserva all’altezza delle spalle.

È un riposo di breve durata. Fra Franz ci porge gli attrezzi e tutt’e tre cominciamo a scavare la fossa. Lui solo ci dà una mano: gli altri tre frati stanno in disparte, assenti, immobili come statue votive.