Avverto di nuovo un senso di profonda assurdità mentre contemplo la sovrapposizione del reale ambiente circostante e del mio inverosimile sogno in Arizona.
Ascolta, potrei rispondere, è necessario compiere un atto di fede, di accettazione mistica, per poter dire a se stessi che la vita non consiste unicamente in discoteche e sotterranee e boutique e corsi universitari. Occorre credere nell’esistenza di forze inesplicabili. T’intendi un pochino di astrologa? Ma sì, certo; e sai bene che cosa ne pensa il New York Times. Perciò spingi oltre la tua capacità di accettare l’intangibile, appunto come abbiamo fatto noi. Accantona il tuo razionale e così moderno rifiuto dell’improbabile e ammetti la possibilità che ci sia una Confraternita, che ci sia un’Iniziazione, che ci sia la vita eterna.
Come puoi escludere senza prima ricercare? Puoi permetterti il rischio di dare un giudizio errato? E così noi quattro ce ne stiamo andando in Arizona: quel grosso bue con i capelli a spazzola e quel dio greco laggiù e quello dagli occhi penetranti che parla a una cicciona e io, e anche se qualcuno di noi ha più fede degli altri, non ce n’è nessuno che non creda almeno un tantino al Libro dei Teschi. Pascal ha scelto di avere la fede perché ha ravvisato troppe possibilità avverse al miscredente, che potrebbe essere scacciato dal Paradiso a causa del suo rifiuto di sottomettersi alla Chiesa; lo stesso vale per noi, che siamo disposti a fare la figura degli sciocchi per una settimana perché nella migliore delle ipotesi ci procureremo un bene inestimabile e nella peggiore non avremo perso null’altro che i soldi della benzina.
Così potrei rispondere, ma non dico nulla di tutto questo. La musica è troppo alta, e comunque noi quattro abbiamo fatto un terribile giuramento studentesco impegnandoci a non rivelare niente a nessuno. E allora dico: — Perché in Arizona? Forse perché andiamo matti per i cactus. Poi là fa caldo, in marzo.
— Fa caldo anche in Florida.
— Ma non ci sono cactus.
7
Timothy
Impiego un’ora a trovare la ragazza giusta e a combinare. Si chiama Bess, ha un petto che non finisce più, è dell’Oregon; divide con altre quattro studentesse della Barnard un grandissimo appartamento sul Riverside Drive. Tre delle quattro ragazze sono andate a casa per le vacanze; la quarta è lì seduta in un angolo, e lascia che un tizio sui venticinque anni, con le basette lunghe e l’aspetto di pubblicitario, mandi avanti il suo piano di conquista.
Perfetto. Spiego a Bess che io e i miei compagni di stanza siamo di passaggio in città nel nostro viaggio verso l’Arizona e vorremmo trovare una sistemazione come si conviene. — Si può fare — dice lei. Perfetto. Non mi resta che raccattare gli altri.
Oliver, con l’aria annoiata, sta parlando con una pollastrella pelle e ossa, dagli occhi troppo lustri. Lo sgancio, gli spiego la situazione, e lo porto dall’amica di Bess, Judy. Questa Judy dev’essere del Nebraska: in breve il pubblicitario viene messo in disparte e Judy e Oliver s’immergono in una discussione sul mangime per i maiali, o qualcosa del genere.
Poi vado in cerca di Ned. Quel finocchio s’è preso una ragazza: ogni tanto lo fa, suppongo per provare a comportarsi come gli uomini normali. Questa qui è un peso massimo: enormi chiappe, enormi tette, una montagna di carne. — Ce ne andiamo — gli dico. — Portala, se vuoi.
Infine trovo Eli. Questa dev’essere la settimana nazionale dell’eterosessualità: anche lui è con una femmina. Sottile, scura di carnagione, quasi niente carne addosso, un rapido sorriso nervoso. Rimane esterrefatta scoprendo che il suo Eli ha come compagno di stanza uno shegitz grande e grosso come me. — C’è posto alla locanda — gli dico. — Andiamo. — Poco ci manca che mi baci le scarpe.
Ci ammucchiamo tutti e otto nella mia auto; nove, contando per due — come merita — la preda di Ned. Guido io. Le presentazioni si susseguono all’infinito. Judy, Mickey, Mary, Bess; Eli, Timothy, Oliver, Ned; Judy, Timothy; Mickey, Ned; Mary, Oliver; Bess, Eli; Mickey, Judy; Mary, Bess; Oliver, Judy; Eli, Mary… Oh, cristo!
Si mette a piovere, un’acquerugiola gelida che è quasi neve bagnata. Appena entriamo nel Central Park, una decrepita auto suppergiù centenaria che sta davanti a noi slitta fuori strada e va a fracassarsi contro un albero colossale, proiettando una decina di individui che ruzzolano in tutte le direzioni. Mi getto sui freni, perché alcune delle vittime sono praticamente sulla nostra traiettoria. Teste schiacciate, colli spezzati, gente che si lamenta in spagnolo.
Blocco l’auto e dico a Oliver: — Sarà meglio andar fuori a vedere se possiamo fare qualcosa. — Oliver sembra istupidito. Fa sempre così, davanti alla morte; mettere sotto anche solo uno scoiattolo lo fa sentire uno straccio. Vedere un’intera infornata di portoricani morti o moribondi è stato un trauma, per il nostro quasi medico.
Mentre lui si mette a barbugliare qualcosa, Judy del Nebraska si guarda intorno ed esclama con autentico terrore: — No! Riparti, Timothy!
— Ci sono dei feriti — ribatto.
— I poliziotti saranno qui da un momento all’altro. Appena vedono otto ragazzi in un’auto, ci perquisiranno prima di soccorrere i feriti. E io ho addosso l’erba, Tim! L’erba! Saremo fregati tutti.
Judy è sull’orlo del panico. Cavolo, non possiamo mica permetterci di sprecare in tribunale metà vacanza solo perché una cretina qualunque si sente in dovere di portarsi addosso la sua porcheria; perciò schiaccio il pedale e mi faccio strada con cautela fra morti e semi-morti. Davvero gli sbirri ci palperebbero in cerca di stupefacenti mentre il terreno circostante è disseminato di corpi? Non riesco a crederlo, ma forse sono condizionato a pensare che la polizia sarà sempre dalla mia parte. Judy potrebbe avere ragione. La paranoia è contagiosa, oggigiorno.
Continuo a guidare; e solo quando sbuchiamo nella zona occidentale del Central Park, Oliver osserva che abbiamo fatto male ad abbandonare il teatro dell’incidente. L’etica del poi, commenta Eli dal sedile posteriore, è peggio che non avere la minima etica. E Ned gli grida — Bravo! — Che lagna, quei due.
Bess e Judy abitano dalle parti della Centesima Strada, in un enorme edificio fatiscente che negli anni ’20 doveva essere una dimora signorile. Il loro appartamento è sterminato: stanze innumerevoli, soffitti altissimi, stucchi pretenziosi, intonaco rugoso e screpolato che porta i segni delle varie riparazioni subite nel corso degli anni. Quindicesimo piano o giù di lì: una vista magnifica sullo squallore del New Jersey.
Bess prepara una pigna di dischi (Segovia, Stones, Sergeant Pepper, Beethoven, eccetera eccetera) e porta una caraffa di Ripple. Judy tira fuori l’«erba» che le ha causato quel panico al parco: un pezzo di sostanza grumosa, delle dimensioni del mio naso. — Te lo tieni addosso come portafortuna? — le domando, ma lei spiega che l’ha avuto alla Caverna di Plastica.
La pipa fa il giro. Oliver, come al solito, la passa oltre: ha paura, immagino, che qualsiasi stupefacente inquini i suoi preziosi fluidi corporei. Rifiuta anche la lavandaia irlandese di Ned: non è ancora abituata a praticare troppi vizi tutti insieme. — Dài — sento che le dice Ned — ti farà perdere un po’ di ciccia. — Lei sembra terrorizzata: forse si aspetta che da un momento all’altro Gesù in persona entri da una finestra e le strappi l’anima immortale dal palpitante corpo peccaminoso. Noialtri, invece, diventiamo piacevolmente intontiti e scivoliamo via nelle camere da letto.
A metà notte avverto una certa tensione alla vescica e me ne vado in cerca di un cesso in quel labirinto di porte e corridoi. Apro qualche porta sbagliata. Mucchi di umanità dappertutto. Da una stanza provengono suoni di passione mescolati a un ritmico cigolio di molle. Non c’è bisogno di sbirciare: dev’essere senz’altro Oliver il toro, che cavalca la sua Judy per la sesta o la settima volta. Dopo che lui si sarà saziato, lei camminerà a gambe larghe per una settimana. Da un’altra stanza giunge un russare sibilante: è quella scrofa scanchignata di Mary che sta facendo un pisolino. Ned dorme nel corridoio. Quel che è troppo è troppo, suppongo.