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— Credo che questa sia la differenza più basilare. Si, è un mondo più pacifico. E be’, non so esattamente il perché. Non c’è nessun processo, nessun meccanismo ovvio che evita le guerre. Le guerre ci sono ugualmente. La seconda guerra mondiale è avvenuta… anche se con un olocausto molto più limitato, e il Giappone è stato abbastanza saggio da non mettercisi in mezzo. Tuttavia, la guerra in Europa è stata sanguinosa; molti americani sono morti nelle trincee. E ci sono state tutte le altre atrocità, a parte Hiroshima. Ma ne è scaturita una certa pace. Nessuno cerca nemici, nessuno vuole nemici. Non c’è stata l’era McCarthy. L’America prosperava in quei giorni, e forse era anche soddisfatta di sé, ma non era isterica.

— Non ci sono più i cattivi? — disse Karen, con un tono leggermente più scettico del voluto.

— Ce ne sono parecchi. C’è razzismo, c’è l’intolleranza religiosa, c’è il conformismo. C’è chi muore di fame. Ma quello che cambia è la scala degli avvenimenti. È solo leggermente diminuita. Si può dire che è un mondo più gentile. Non esiste la CIA, non esistono consulenti militari nei paesi del terzo mondo e il livello di criminalità è piuttosto basso, anche se se ne lamentano tutti — sorrise. — E il tempo è bello.

Karen cercò di pensare a tutte le cose che la spaventavano nella sua vita di tutti i giorni. — Il dolore — disse. — Le malattie. La morte.

— Be’, non siamo in paradiso, ma si può andare in ospedale senza dover ipotecare la casa.

— La droga? — Il grande incubo dei genitori.

— Le droghe esistono — disse sua sorella. — Ma non ho mai sentito parlare di un vero e proprio problema al di fuori dei peggiori quartieri urbani. E non ci sono neanche molti alcolizzati. Non c’è una grande richiesta di cocaina o anfetamine. Sai, la vita qui è un po’ più lenta. Ma si possono comprare piccoli quantitativi di marijuana. Legalmente.

— Un bel posto dove scappare — disse Karen.

— Se è questo che stai facendo, non è certo una cosa di cui vergognarsi. A volte bisogna scappare via.

Tu dovresti saperlo bene, pensò Karen, vergognandosene subito dopo. — Be’, non è male, naturalmente — disse. — Sei felice qui?

Sua sorella non rispose immediatamente. Karen capì che aveva fatto una domanda importante, una di quelle pericolose. Di colpo, Laura tornò a essere la sua sorellina, e a Karen vennero alla mente vecchi pensieri irrisolti; Avrei dovuto proteggerla… Avrei dovuto…

— Sono felice — disse Laura lentamente — quanto riesco a immaginare di poterlo essere. E non tornerei indietro. Non per restare. Adesso è questa la mia casa.

Casa. Ancora quella parola.

— Allora mi sbagliavo, anni fa. — disse Karen.

Laura allungò una mano sul tavolo, facendo tintinnare i braccialetti.— Non è questo che intendevo.

Ma la consapevolezza di quella vecchia discussione aleggiava a mezz’aria fra loro. Karen si voltò verso la strada, sperando di scrollare quell’improvvisa malinconia. Sempre che non fosse stata qualcosa di peggio della malinconia. Ma quella strada, Caracol Street, in quella strana città e in quel mondo particolare, le sembrò totalmente sconosciuta. Un brivido la percorse e un pensiero attraversò la sua mente; Non avresti dovuto venire qui. È stata una brutta cosa venire qui. La voce di papà le riecheggiava nel cervello.

Pensò a Laura vent’anni prima, in quell’hotel di Santa Monica.

7

Era il 1969, un anno sbalorditivo. Karen stava studiando per la laurea in inglese a Penn State, e tornava a casa per il weekend solo ogni due settimane. Tim andava male alle superiori, e Laura era al suo secondo semestre all’università di Berkeley e, a sentire ciò che le aveva detto sua madre, si trovava in guai seri.

Karen era tornata a casa per le vacanze pasquali. Quell’anno, “casa” era l’abitazione di Polger Valley; una vecchia città di acciaierie nella Mon Valley, con i suoi antichi mulini rimessi all’opera per la guerra in Vietnam. Papà aveva trovato impiego in fonderia, mentre la mamma lavorava a mezza giornata dal parrucchiere. Karen era riuscita a pagarsi da sola quasi tutta la quota per studiare a Penn, con solo un piccolo aiuto da parte dei genitori. Tuttavia, il college di Laura aveva inciso in maniera notevole sul bilancio familiare,e l’educazione di Tim era ancora in dubbio; era un ragazzo brillante, ma si rifiutava di trovarsi un lavoro. La chiamata alle armi era una minaccia costante, ma lui diceva che avrebbe trovato il modo di non passare agli esami fisici, oppure sarebbe fuggito in Canada… e forse l’avrebbe anche fatto, anche se, secondo Karen, diceva queste cose soprattutto per fare arrabbiare papà. In ogni caso, Tim usciva di casa correndo e andava a condolersi con i suoi amici dai capelli lunghi. Tim, che portava una bandiera americana cucita al contrario sul suo giubbotto di jeans, era come un parafulmine, per quanto riguardava i pasticci.

Quel fine settimana, papà era accigliato e Timmy era fuori. Lo scenario era familiare.

Dopo cena, sua madre la prese da parte. Ultimamente, Karen vedeva i suoi genitori sotto una nuova prospettiva; loro erano adulti, e lei era adulta. Avrebbe dovuto poter parlare loro in maniera adulta.

In teoria, almeno. Nella pratica, era molto più difficile. Ma cercava di essere obiettiva.

— Abbiamo ricevuto una lettera da Laura — le disse sua madre.

Parlava a bassa voce. Non voleva che papà la sentisse. Papà stava guardando la televisione nella cameretta che chiamavano “la tana”, una piccola stanza accanto al soggiorno. Karen e sua madre erano sedute in cucina. La cucina, così pensava Karen, era la stanza più rassicurante di tutta la casa, e di conseguenza era la migliore per le cattive notizie. Karen focalizzò il momento nella sua mente; piatti ammucchiati sullo scolatoio, sua madre in un grembiule a fiori, con la busta stretta in una mano. — Laura non è più a Berkeley.

Karen sbatté le palpebre. Non è più a Berkeley? — Be’, dov’è allora? Sta tornando a casa?

Mamma scosse il capo e le diede la lettera.

Era molto breve. Spiegava che Laura aveva abbandonato i corsi universitari e che si era trasferita da alcuni amici, e che “forse non mi sentirete tanto spesso,” e che “voglio trovarmi un posto per me, dove posso vivere a modo mio.” Come mittente, sulla busta, c’era un indirizzo di Los Angeles.

— Non l’ho detto a papà — disse la madre. — Sai come è fatto.

Si sarebbe arrabbiato parecchio, pensò Karen. La sua nuova obiettività le permetteva di capire che papà era spesso arrabbiato con i suoi figli. Non se ne era ancora chiesta il motivo.

Fu allora che sua madre fece qualcosa di stupefacente. Infilò una mano nella tasca del grembiule, estrasse due banconote da cento dollari e le spinse attraverso il tavolo, verso Karen.

Karen fissò il denaro, sbalordita.

— Prendili — le disse sua madre. — Sarebbero i soldi per la casa, ma non importa. Prendili e vai là. Trovala e cerca di farla ragionare.

Ma ho gli esami, pensò Karen. Devo studiare. Non posso perdere tutto quel tempo.

Ma non riuscì a dire niente di tutto questo.

Invece, sentendosi leggermente in soggezione, prese il denaro e se l’infilò nella tasca dei Levi’s. Erano una presenza scomoda.

— Sei sempre stata la più ragionevole — le disse sua madre.

Prenotò i biglietti e una camera d’albergo attraverso un’agenzia turistica. Il viaggio la spaventava; non si era mai allontanata tanto in vita sua. — Si tratta di una vacanza? — le avevano domandato in agenzia. — Non lo so — aveva risposto Karen. — Credo di sì.

Affittò una macchina all’aeroporto di Los Angeles, e seguì scrupolosamente la rotta che si era preparata sulla cartina per raggiungere l’albergo. Lì fece una doccia, e poi si recò all’indirizzo che Laura aveva scritto sulla busta.