Quando vide la casa, rimase un po’ sconcertata. Si trattava di un prefabbricato ai piedi di una strada che si arrampicava fra due pareti di tufo. I muri grezzi erano stati dipinti di un color giallo canarino, e la vernice si stava scrostando. Una motocicletta era parcheggiata davanti alla casa.
Bussò. Una breve attesa, poi la porta si aprì. Si trovò davanti un uomo alto e molto magro. Indossava una felpa e un paio di jeans stretti e consunti. Aveva la barba.
— Ehi — disse, con aria confusa. — Tu assomigli a Laura.
— Sono sua sorella. — Gli occhi di Karen iniziarono ad adattarsi all’oscurità. La stanza era un disastro. Un materasso per terra, una pipa ad acqua, ammassi di abiti… — Posso parlarle?
— A Laura? Laura non è qui. È da un paio di giorni che non la vedo. — E poi, con naturalezza: — Vuoi entrare?
Karen scosse il capo. Prese un blocchetto e una penna dalla sua borsa e scrisse l’indirizzo del suo albergo. — Può darle questo?
L’uomo scrollò le spalle. — Karen, vero?
Karen si bloccò mentre scendeva gli scalini di cemento. — Mi conosce?
— Mi ha parlato di te.
Quindi, non c’era niente da fare tranne che aspettare. L’attesa la faceva sentire colpevole, passiva. Avrebbe dovuto fare qualcosa. Ma che cosa? Assumere un investigatore? Un’idea ridicola. E inoltre non se lo poteva permettere. Così, decise di aspettare la telefonata e di seppellirsi nei testi che si era portata con sé. Faulkner e Sir Walter Scott. I libri le si confusero nella mente, in una bizzarra doppia esposizione, con tutte quelle strane famiglie con lo spettro del passato. Quando infine il telefono squillò, un giorno prima che il suo biglietto scadesse, sobbalzò come se le avessero dato uno schiaffo. Afferrò la cornetta e disse: — Laura?
— Non serve a niente che tu venga qui, lo sai? — una voce piccola e distante. — Voglio dire; lo apprezzo, ma è inutile.
Strinse la cornetta con tutta la sua forza. — Voglio vederti.
— Mi fa piacere. Ma non so se sarà possibile.
— Oggi — disse Karen. — Parto domani mattina.
Seguì un lungo silenzio, fra il ticchettìo e i sussurri della compagnia telefonica.
— Va bene — disse infine Laura con un sospiro. — Sei in qualche albergo?
Le ripeté l’indirizzo.
— Ci vediamo più tardi.
Seguì un clic, e poi un ronzio fisso.
Karen rimase leggermente scioccata quando vide sua sorella, anche se ovviamente se lo sarebbe dovuto aspettare: Laura sembrava una hippy.
“Hippy” era una parola che Karen aveva sentito soprattutto dai notiziari della televisione. Gente trasandata che partecipava a marce di protesta. Drogati. A Penn State si era tenuta lontana da quel genere di cose. Aveva una discreta cerchia di amicizie, ma erano quasi tutte ragazze del suo corso di inglese, e quasi tutte di tendenza conservatrice. Aveva visto girare degli spinelli in alcune feste dell’associazione studentesse universitarie, passati di mano in mano come candele votive, ma la cosa non si spingeva più in là di così. Erano tutti contro la guerra, tutti politicamente progressisti, ma mai coinvolti più di tanto. Erano, in effetti, segretamente orgogliosi di avere la testa a posto.
Come me, pensò Karen. Lei era quella ragionevole. E aveva amici ragionevoli.
Laura indossava dei jeans antichissimi e una maglietta tinta con una varietà accecante di colori. I suoi capelli erano tutti intrecciati, e sulle unghie aveva dipinto qualcosa di simile ai segni dello zodiaco.
Karen si sentì stranamente presa in contropiede da tutto ciò, da quella sfacciata dichiarazione di eccentricità. Forse sarebbe stata in grado di convincere sua sorella ad abbandonare una cattiva idea, o un piano stupido; ma quel guardaroba era qualcosa di troppo concreto. È per questo che si vestono così, pensò, per dar fastidio alla gente normale.
Laura entrò nella stanza e si accasciò su una poltrona. — Io credo — disse — che tu sia qui perché ti ha mandata mamma. Giusto? “Vai a cercare Laura, e cerca di farla ragionare.” — Laura imitò il largo accento della Mon Valley di sua madre.
Karen rimase colpita. — Si, è la mamma che mi ha dato i soldi.
— Allora credi che abbia ragione? Credi che io sia pazza?
— Non c’è bisogno che tu ti metta sulla difensiva. Io non lo posso sapere. Sei pazza?
— Sì. È una condizione comune.
— Vuoi che ti convinca a desistere?
— No. Certamente no.
— Hai un’aria stanca — disse Karen.
— Lo sono. Sto cercando di organizzarmi. Hai letto la lettera? — aggiunse poi con maggiore cautela. — Me ne sto andando via.
— Via dove?
— Probabilmente preferiresti che non te lo dicessi.
Karen pensò che probabilmente era vero.
— Hai un’aria abbastanza selvaggia — aggiunse, disperatamente.
— Lo immagino — Laura le lancio un’occhiata, e Karen notò qualcosa di più dolce nel suo viso. — Mi spiace per tutti questi misteri. Vuoi che ti spieghi tutto? Se sei venuta per una spiegazione…
Una spiegazione sarebbe stata meglio di niente. — Ma facciamo due passi — disse Karen. — Non ne posso più di questa stanza.
Presero due bottiglie di Coca Cola, e si incamminarono lungo la spiaggia.
— Sono venuta a Berkeley — iniziò Laura — soprattutto per via di tutte quelle cose che sentivo dire sulla California. Sembra stupido, non è vero? Be’, lo è stato. Stupido e ingenuo. Ma era importante per me. Sapere che da qualche parte nel mondo c’era qualcuno che usava la parola “freak” senza usarla come sinonimo di “mostro”. Era Tim che parlava sempre di noi a quel modo. Te lo ricordi? «Siamo dei freak», diceva. «Dovremmo abituarci a questo».
— Tim ha sempre avuto una vena crudele — disse Karen. — Non aveva nessun motivo per dire così. E in ogni caso, è successo tanto tempo fa.
— Quando eravamo alle superiori. Ma il punto è che aveva ragione.
Karen si voltò verso l’oceano. — Tu non credi questo.
— Lo credo sì. E anche tu lo credi. — Toccò il braccio di Karen. — Mi dispiace. So quanto detesti tutto ciò, ma ne dobbiamo parlare. Abbiamo passato già troppo tempo senza parlarne. Siamo diversi e lo siamo stati fin dal giorno della nostra nascita. E per questo che papà ci odia così tanto. È per questo che ci picchiava ogni volta che ci pescava a fare quello che sappiamo fare.
La costernazione di Karen era immensa. Cercò di appellarsi all’obiettività che aveva coltivato a scuola. Nel suo corso di psicologia tutto questo sarebbe stato molto semplice. Ma parole come “papà” o “diverso” aleggiavano lì, intorno a loro, in un modo che la metteva a disagio, e non osava ispezionarle troppo a fondo. — Quei vecchi sogni — balbettò — quei vecchi giochi…
— Non erano sogni. Non erano giochi — Laura sospirò, ed esitò un po’, forse pensando a come procedere. Poi continuò, con tono paziente. — Quando ti dicono per un certo periodo di tempo, con una certa insistenza, e fin dalla tenera età che una cosa è negativa, e innominabile, e sporca, tu inevitabilmente finisci per crederlo. E non puoi fare a meno di crederlo. Anch’io lo credevo. Ma sono stata abbastanza fortunata da andare al di là di tutto questo.
(Ma tu non l’hai mai creduto, pensò Karen. Tu eri come Tim. La ribellione era una cosa facile per te.)
— A Berkeley — continuò Laura — tutti si facevano gli acidi…
— LSD? — Karen era terrorizzata.
— Non credere a quello che scrivono i giornali. Oddio, non che sia vero neanche tutto quello che dice Leary, ma mi ha insegnato alcune cose. Ho potuto uscire da me stessa, e guardare me stessa dall’esterno per la prima volta — s’infervorò nel suo racconto. — Quel senso di possibilità… io credo che sia questo ciò che noi siamo veramente, io te e Tim. Noi possiamo vedere cose che il resto della gente non può vedere.