— Possibilità — ripeté Karen con tono cupo. Ma tutto questo sfuggiva totalmente al suo controllo…
— Mondi — continuò Laura. — Non è forse questo che tutti stanno cercando? Un mondo migliore? Sai, una volta andavamo giù all’Haight con agli amici. E c’era questa stessa sensazione. Un mondo migliore è possibile. E sai che cosa è l’Haight adesso? Un ghetto pieno di giovani eroinomani. Sta morendo tutto quanto; è morto. Se ne sono andati tutti; nel deserto, a Sonora, o nell’Oregon. La visione stessa è morta. Così io sono venuta qui con della gente, e volevamo mettere su una comunità, per vivere assieme in maniera più creativa… abbiamo usato proprio queste parole. Hai visto la casa? Un buco. E Jamie è tornata dai suoi genitori, e Christine è incinta, e Donald è in Canada per evitare il servizio militare, e Jerry ha preso il brutto vizio di bucarsi. E così il sogno muore, giusto?
Karen era atterrita. Droghe, buchi e comuni. Le sembrava squallido.
— Ma non deve morire per forza — disse Laura. — Io posseggo quest’abilità. Quest’abilità pazzesca di camminare via dal pianeta spostandomi lateralmente. E sono convinta che esiste un mondo migliore là fuori. In quel groviglio di possibilità. Non un sogno, e neanche uno di quei luoghi infernali che apriva sempre Tim. Io intendo un luogo giusto. Un luogo dove la gente si interessa al prossimo, e dove la stupidità non ci inchioda tutti quanti.
Karen unì le mani in grembo. — Credo che mamma avesse ragione. Credo che tu sia veramente pazza.
— Ma dai, Karen, non fare così. Se c’è qualcuno qui che vive in un mondo di sogni, sei proprio tu. Ti ricordi quella notte nella vecchia casa di Costantinopole Street? Quando scendemmo giù nella gola, e Timmy aprì una porta su quella vecchia città di mare con le vie acciottolate? Il freddo che faceva, e quell’uomo…
— Abbiamo inventato tutto — disse Karen, alzando la voce più di quanto avrebbe voluto. Sulla spiaggia, una coppietta le guardò.
Karen fissò il terreno.
— Be’, io me lo ricordo — disse Laura con tono tranquillo. — Mi ricordo le botte che prese Timmy per questo. Seguito da me. E poi da te. Tu più di tutti. Perché tu eri la maggiore, la nostra protettrice. È quello che volevano che tu fossi. Karen dovrebbe essere la più responsabile. Karen…
— Smettila!
— Non riesci proprio ad ammetterlo, vero?
— No — rispose Karen.
— No. Perché ammetterlo significherebbe ammettere tante altre cose. Che il mondo è più strano di quel che sembra. Che papà non ha sempre ragione. Che quando papà ti picchia non significa che ti vuole bene. Forse significa l’opposto. E forse questa è la cosa peggiore di tutte.
Karen si alzò in piedi. Aveva della sabbia sul vestito. Mentre se la spazzolava via, si sentì affettata e ridicola. Le tremavano le mani.
— Vai a casa? — le chiese Laura.
— Non prendermi in giro!
— No… oh, Karen, mi dispiace. Ma non è necessario che tu vada.
— Ho gli esami.
— Non c’è bisogno che tu faccia gli esami.
— Cosa?
— Vieni con me. Potremmo farlo assieme. Attraversare i confini.
Dice sul serio, pensò Karen. Mio Dio, dice sul serio.
Afferrò la cinghia della sua borsa. — Io non ho mai voluto un mondo migliore. Non ne ho bisogno! Non lo capisci questo? Tutto ciò che voglio è essere normale.
Quella mattina ripartì per la Pennsylvania, e per vent’anni non rivide più la sua sorella selvaggia.
Sedeva al caffè di Caracol Street con quel ricordo opprimente che non riusciva a scacciare. Ma la Laura che la guardava ora dall’altra parte del tavolo era invecchiata; non pentita, ma certamente meno selvaggia. — Avevi ragione — ammise Karen — su un sacco di cose.
— Credo che ognuna di noi due credesse che l’altra stava scappando via.
— Forse era proprio così.
— Forse è ancora così. — Karen fece una smorfia. — Ci sono tante domande che non ci siamo mai poste — continuò Laura — che non ci siamo mai permesse di porci. Perché possiamo fare ciò che possiamo fare? Siamo degli scherzi della natura, degli errori genetici? O qualcos’altro? E poi c’è Tim. Io non ho sue notizie da quando se n’è andato da casa nel ’72, e tu?
— No. Non l’ha sentito nessuno, in famiglia — ma quello era un argomento pericoloso. — Non credo che importi ciò che siamo. Il passato è il passato.
Laura scosse il capo. — Importa eccome.
Lasciò giù una banconota e degli spiccioli per il pranzo, e si fecero strada fra i tavolini. Il sole brillava su Caracol Street, illuminandola da ovest. Laura si coprì gli occhi con una mano e disse: — Importerà a Michael.
8
Michael aveva deciso che Emmett era un tipo niente male.
Emmett suonava la chitarra acustica in una banda di folk latino chiamata Rio Negro, e faceva anche dei numeri da solo nei locali di Turquoise Beach. Il suo appartamento, che era sotto quello della zia Laura, sembrava un negozio di strumenti musicali. Aveva strumenti a corda di tutti i generi, appesi o semplicemente appoggiati alle pareti. Spiegò a Michael che differenza c’era fra una chitarra da flamenco, una chitarra classica e una chitarra acustica; gli mostrò un Dobro, un mandolino a F, e un vecchio banjo Vega a manico lungo, il “modello Pete Seeger”. Michael vagava in quell’ammasso, immerso nello stupore. — Ho preso qualche lezione più o meno un anno fa… conosco qualche accordo.
— Ah sì? — disse Emmett. — Be’, se la vuoi provare, laggiù c’è una vecchia Gibson. Non ha un grande aspetto, ma suona abbastanza bene.
Michael prese in mano la chitarra con riverenza.
Materiale da svendita, pensò, ma le meccaniche erano buone e le corde sembravano nuove. Arpeggiò un sol, un mi minore, un do. Si sentiva le dita intirizzite, ma gli accordi risuonarono.
Emmett raccattò la sua chitarra, una Martin dodici corde. — Ho chitarre fatte a mano, e ho chitarre straniere, ma alla fine torno sempre a questa vecchia Martin. Non è un granché intonata, ma ha un suono che mi piace troppo. — Si sedette su un panca con dietro le veneziane e il mare, e suonò un paio di pezzi complessissimi che fecero sentire Michael un dilettante senza speranze. Emmett sorrise attraverso la sua barba. — Vuoi suonare qualcosa?
Michael disse che forse sarebbe stato capace di seguirlo in qualche pezzo folk. Union Maid, o Guantanamera, o qualcosa del genere. — Coraggio, allora — aveva detto Emmett, e Michael aveva tentato sportivamente di stargli dietro mentre si lanciava in The Bells of Rhymney. Aveva una voce ruvida, forte e baritonale, e Michael rimase impressionato dalla sincerità con la quale cantò la vecchia canzone di protesta di Seegers “Non c’è forse un futuro, gridano le campane brunite di Merthyr…?” Lo fece rabbrividire.
Suonarono una mezza dozzina di pezzi, finché le dita di Michael non furono livide. Emmett fece un ampio sorriso. — Non male — disse. Infilò una mano nella tasca della camicia e tirò fuori qualcosa che Michael identificò come uno spinello. L’accese, aspirò, e lo porse a Michael.
Michael riuscì a mantenersi freddo. — Forse è meglio se non lo dici a mia madre.
— Del fumo?
Michael annuì.
— Disapprova?
— Disapproverebbe.
— Va bene allora — disse Emmett. — Rimarrà un nostro segreto.
Michael tirò con cautela. Aveva fumato un paio di volte, nella cantina di Dan, durante i fine settimana. Riuscì a non tossire, ma il fumo dolce e pungente lo attraversò come il vento. Sentì subito la testa leggera.