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— Dev’essere stata dura… — disse Michael.

— Essere quello che siamo? — era ovvio che intendeva questo. Il punto cruciale. Ma anche adesso, era difficile parlarne. Non avrebbe mai potuto dire certe cose, neanche a uno come Emmett. — Più dura di quanto non ti immagini. Quando eravamo piccoli facevamo dei giochi. Li chiamavamo “fare finestre” o “fare porte”. Eravamo consci, forse solo a livello istintivo, del fatto che era una cosa da tenere segreta. Allora lo facevamo di notte, o al buio, o fuori nella gola, dietro la vecchia casa di Costantinopole Street. E a volte… a volte ci scoprivano.

La sua voce era scesa a un sussurro. Michael le camminava accanto, con lo sguardo fisso sui lacci delle scarpe.

— Papà diceva che era la peggior cosa che una persona potesse fare. Il peggior peccato. Era un peccato talmente grave che non era neanche scritto nella Bibbia, tranne che nel punto in cui diceva di permettere a una strega di vivere. Era una cosa brutta e ci avrebbe messo nei guai… o ci avrebbe uccisi.

— Diceva così?

— In tutti i modi. Spessissimo. E a volte ce lo diceva anche con le botte.

Michael tornò a studiare il marciapiede.

Laura continuò: — Noi naturalmente lo prendevamo sul serio; ma per me, e ancora di più per Tim, la tentazione era sempre presente. Ci veniva naturale. Eravamo abili nel farlo. E così, certe volte, quando eravamo sicuri di non essere scoperti, lo facevamo; aprivamo finestre e porte. Lo facevamo, e poi pregavamo Dio affinché ci perdonasse. Ma Karen aveva preso veramente sul serio tutto questo. Credevamo tutti a papà, ma Karen gli credeva con una terribile, spaventosa intensità… credo che ne fosso accecata. Credo che, sotto un certo punto di vista, gli creda ancora.

Camminarono lungo la strada ombrosa fino a un angolo, e svoltarono a destra. Passarono ancora un paio di quelle case alte e vecchie, e si ritrovarono in uno spiazzo roccioso pieno di sassi e di erbacce. Un cavalletto giallo e nero con la scritta ATTENZIONE STRADA INTERROTTA segnava la fine dell’asfalto. Più in là c’era un promontorio erboso, e alla fine uno strapiombo sul mare di una ventina di metri. Sotto, l’acqua schiumava candida contro gli scogli.

Laura si sedette e si abbracciò le ginocchia. Michael si appoggiò a una roccia, e fissò la distesa d’acqua.

— Non sei abituato a pensare a tua madre in questo modo — disse lei.

— Credo di no. — Ci vuole un po’ per abituarcisi.

Sembrava molto pensieroso. Lei lasciò scorrere il silenzio. Quel posto le piaceva, e ci stava bene.

Michael prese un filo d’erba e lo divise a metà per il lungo. — Ed è tutto qui? — chiese.

— In che senso?

— Io non ho mai sentito parlare di nessuno che fosse in grado di fare una cosa simile. E tu? Voglio dire che non è come la percezione extrasensoriale o la stregoneria, sulle quali si può leggere qualcosa in un libro di biblioteca. Noi siamo nati tutti così, giusto? Ma perché? Da dove arriva?

Laura scrollò le spalle. — Non l’abbiamo mai scoperto.

— Vuoi dire — ribatté Michael — che non l’avete mai chiesto.

— Non c’è mai stato nessuno al quale lo potessimo chiedere. Non a mamma e papà, questo era sicuro. Loro non possedevano il talento. Bastava guardarli, e sapevi che loro non l’avevano. I loro genitori? Una volta ho conosciuto la nonna Fauve. Viveva in una vecchia casa a Wheeling con tre gatti e un dobermann incatenato alla baracca degli attrezzi. Era una signora anziana normalissima. E inoltre, credo che lo saremmo venuti a sapere se i nostri genitori discendevano da gente come noi. C’è un modo particolare di sottintendere le cose… e nessuno di loro parlava in quel modo.

— Allora è un mistero.

— Sì — acconsentì Laura. — È un mistero.

— Credi che riusciremo mai a svelarlo?

La domanda le toccò un nervo. Inarcò la schiena, e si voltò verso il vento del mare. Il vento saliva dalla scogliera come un fiume; tutti gli anni, ad agosto, la gente veniva lì a far volare gli aquiloni. Ma il tempo era cambiato. Ora faceva troppo freddo.

Si voltò verso suo nipote e disse: — Forse saremo costretti a farlo.

Prima di tornare a casa, Laura gli disse: — Mostrami che cosa sai fare.

Dapprima, Michael fu riluttante. Era una cosa intima, una cosa che aveva appena scoperto. Ma poi pensò a ciò che gli aveva detto, che era molto di più di quanto non gli avesse mai detto sua madre, e pensò che in un certo senso glielo doveva.

Ma forse non riusciva a farlo. Forse aveva perso l’abilità. Forse doveva essere «fumato» per farlo… forse era troppo nervoso.

Tese le braccia in avanti e unì gli indici e i pollici come aveva fatto il giorno prima. Non accadde nulla. Disperatamente, Michael cercò dentro di sé quella scintilla di elettricità che era riuscito a evocare giù sulla spiaggia. Si ricordò la sensazione, il modo in cui sembrava venire non da lui ma attraverso di lui, succhiata dalla terra; quella strana tensione elettrica di granito, di calcare, di fondale marino, di magma e di tettonica. E così, ricordandosela, iniziò infine a sentirla nuovamente; dapprima debolissima, come un formicolio, poi qualcosa di più intenso. , pensò, e aprì fra le sue mani un vortice di possibilità.

Le mostrò il mondo devastato e senza oceano che aveva scoperto il giorno prima. Le mostrò il mondo vuoto; oggi le foche erano tutte radunate più in là lungo il litorale, e cadeva una pioggia grigia. E le mostrò luoghi che non aveva mai visto prima, luoghi completamente diversi da Turquoise Beach; mondi deserti, un oceano mai interrotto dalla terra, un cielo di alte nubi color lavanda… e ancora. In un angolo della sua mente aveva la vaga coscienza di Laura appena fuori dal suo campo visivo, che sbirciava da dietro la sua spalla. Le sue esclamazioni di stupore, che percepiva appena, lo rendevano felice. Anche lei lo vede, pensò. Non era un’allucinazione, e non era pazzo, e non era solo. Ormai eccitatissimo, passò attraverso una dozzina di cambiamenti a raffica, finché un senso di fatica, una specie di stanchezza interna, non lo costrinse a fermarsi.

Si accasciò contro un masso. Gli pulsava il cervello. Prese una grande e soddisfacente boccata d’aria e disse: — Com’era? Andava bene?

Laura lo fissò come da molto lontano. La sua voce uscì debole e gracchiante: — Non sono mai riuscita a fare tanto…

La discussione fra le due sorelle scoppiò di sera, anche se la tensione era stata viva per tutta la giornata.

Era la loro terza settimana in quella casa. Parte della tensione di Karen derivava indubbiamente dallo stress di vivere gomito a gomito con Laura, che in fondo era ancora quasi una sconosciuta per lei. In più, era ancora in quel periodo di adattamento che segue inevitabilmente qualunque cambiamento improvviso.

Ma questa era solo una parte. C’era un’altra cosa che la disturbava più profondamente. Il mondo in cui abitava Laura le sembrava, stranamente, troppo familiare. Proprio quando Karen iniziava a sentirsi a casa sua, inciampava in qualche incongruenza che le faceva girare la testa. Il giorno prima, ad esempio. Era in coda al negozio di alimentari, e aveva sentito una commessa che diceva al cassiere che John F. Kennedy era morto: in pensione, nel New England, a 72 anni. Un infarto, aveva detto. — Be’, ammiravo quell’uomo, anche se era un cattolico.

MORTO L’EX PRESIDENTE JOHN FITZGERALD KENNEDY, scrivevano i titoli del L.A. Times. I funerali erano previsti per la domenica. Le autorità si sarebbero radunate a Washington. Il presidente Bartlett esprimeva il suo cordoglio, e così via.

Tutti quegli anni prima, pensò Karen, per chi aveva pianto?

Si può veramente eliminare una pallottola? Solo desiderandolo?