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Era rimasta stordita per diverse ore, rimuginandoci sopra.

Ma non era solo quello. C’era anche l’atmosfera del paese stesso, Turquoise Beach, con la sua vita facile che sembrava piacere tanto a Laura. A Karen piaceva molto meno. Era di un edonismo senza scopi, e non era certa di volere che Michael vi rimanesse esposto ancora molto a lungo. Michael aveva preso in simpatia Emmett, il ragazzo del piano di sotto di Laura; Emmett, che suonava la chitarra per vivere, e che Karen aveva notato giù sulla spiaggia a fumare erba, la sera.

Tutto ciò contribuiva allo stress di Karen. Ma fu Laura ad iniziare la discussione, insistendo sul voler parlare di Michael.

Michael era andato a letto. Laura stava finendo di lavare i piatti. Karen si era messa la camicia da notte e la vestaglia, ma non riusciva a dormire, e quindi sedeva in cucina, sotto la fluorescenza fredda delle luci sul soffitto, ascoltando il rumore dei piatti bagnati che si urtavano fra di loro nel lavandino.

Laura declinò la sua offerta di asciugare le stoviglie e disse: — Sai, credo che dovresti veramente parlargli.

— Michael sta bene — rispose Karen. — Si è adattato bene in questi ultimi giorni.

— Non credo che certe banalità siano ancora utili ormai, vero? Capisci cosa voglio dire…

— Il talento — disse Karen. — Deve per forza incentrarsi tutto su questo?

— Questa volta sì. Non hai mai pensato a come deve essere disorientante e confusa questa faccenda per lui? Non solo Turquoise Beach, ma anche tutto quel casino che c’è stato prima che partiste… l’Uomo Grigio. Che cosa dovrebbe pensare di questo?

Preferirei, pensò Karen, che non ci pensasse affatto. Sapeva che sarebbe stato ridicolo dire una cosa simile, ma sarebbe stato molto più semplice se… — Sarebbe molto più semplice — disse — se potessimo limitarci a condurre una vita normale, qui.

— Normale! — sua sorella lasciò cadere una brocca di plastica nel lavandino. — Tu tieni a quella parola come fosse una specie di reliquia religiosa! Voglio dire, io ti capisco… ma Cristo, Karen non sono sicura che tu e io possiamo permetterci di aspirare ad essere “normali”!

— Per il bene di Michael!

— È proprio di questo che sto parlando. È un ragazzino sveglio, è curioso, e credo che si meriti tutte le spiegazioni che siamo in grado di dargli.

Karen rimase in silenzio per un po’. — Speravo di tenerlo al di fuori di tutto questo — disse infine.

— Sei un po’ in ritardo.

Laura si asciugò le mani e si sedette al piccolo tavolo quadrato.

— Michael è un ragazzo brillante e curioso. Dovrebbe parlare con te di queste cose, non con me.

Karen alzò lo sguardo di scatto. — Ha parlato con te?

— Sì.

— Che cosa gli hai detto?

— La verità.

Karen rimase a bocca aperta. — Tutto? Voglio dire, anche quello che succedeva a casa, con Tim, e papà, e tutto quanto?

— Tutto quanto.

Era mortificata. Era avvenuto tutto alle sue spalle. — Non è ancora pronto! Ha solo quindici anni! — Era come una cospirazione. — Cristo, Laura, è mio figlio! Avrò pure il diritto di prenderle io, certe decisioni!

— È tuo figlio, e mi dispiace se ho interferito. Ma è anche un ragazzo molto confuso che ha un disperato bisogno di risposte. Sarebbe dovuto venire da te… ma non l’ha fatto. Ha sentito che non ci sarebbe riuscito.

— E allora è venuto da te? Ma perché? — Si sentiva ferita. — Perché fai parte di questa utopia hippy? E che cosa gli hai detto? Che va tutto bene, basta che indossi un po’ più spesso i jeans stretti e slavati?

Laura si alzò in piedi e tornò al lavandino, fissando la finestra, completamente buia. Karen poteva vedere il suo viso riflesso nel vetro, con le labbra serrate.

— Questo è il meglio che sono riuscita a ottenere — disse Laura. — Lo capisci questo? Io credo… io credo che, di qualunque cosa si tratti, il nostro talento è in qualche modo legato all’immaginazione. L’abilità di vedere cose che non ci sono, o almeno di vederne la forma, il contorno. Io volevo trovare il miglior posto che potevo, un posto dove vivere, un posto sano. Volevo farlo esistere con i miei sogni. E questo è il meglio che sono riuscita ad ottenere — scrollò le spalle. — Forse non sono riuscita a ottenere un granché.

— Io non volevo dire questo…

— Forse Michael potrebbe fare di meglio. Non ci hai mai pensato a questo?

— Michael? — ripeté Karen, presa in contropiede.

— È abbastanza ovvio. Prova a guardarlo, qualche volta. Intendo guardarlo veramente. — Laura si voltò nuovamente verso di lei. Le sue dita stringevano il bordo del lavandino. — Io credo che abbia più talento di noi… forse ha anche più di Tim.

Ma non era il genere di cosa sulla quale Karen volesse riflettere.

Era già un male che Michael avesse dovuto sapere tutto. Era già un male che lei l’avesse portato lì. Era già un male che Laura l’avesse trascinato in quella vecchia disgrazia familiare. Era un male, ma in fondo poteva anche essere comprensibile. In fin dei conti ne faceva parte, e forse lei avrebbe dovuto parlargliene.

Ma non aveva voluto ammettere con se stessa che anche Michael potesse avere il talento.

Non si era permessa di crederlo. Era un grande tabù. L’ultima volta che aveva considerato quell’idea (il ricordo tornò vivido nella sua mente) era stato quando era incinta. Michael allora non era ancora Michael, era solo una presenza dentro di lei; uno strano peso, una vita che si schiudeva dentro il suo ventre. Sdraiata nel suo letto, di notte, sentendolo scalciare, si era permessa il pensiero: E se fosse come me? Immaginò che fosse come avere una di quelle malattie genetiche, come quella di Woody Guthrie. Aveva guastato la sua vita, e avrebbe potuto guastare anche quella di suo figlio.

Sarebbe stata in grado di sopportare una cosa simile?

Si era addossata a Gavin, che dormiva profondamente, finché il suo calore non le aveva invaso il corpo. A quel punto, cadendo in un sonno tormentato, aveva deciso che non avrebbe neanche considerato quella possibilità. Il loro figlio sarebbe stato normale. Lei lo avrebbe reso normale. Avrebbe desiderato la sua normalità, avrebbe pregato per la sua normalità; la loro sarebbe stata una casa normale. Certamente questo era sufficiente?

E così, naturalmente, Laura aveva ragione. Aveva trasformato quella parola, “normale”, in un’icona. Era un dono, e lei aveva tentato di dare quel dono a Michael. Aveva provato, e, be’ era anche ovvio, aveva fallito.

Alzò il capo, e fissò la sorella. — Stai dicendo che sono io quella che è scappata via… che si e nascosta.

— Una volta lo credevo. Ma ora non credo di poterne essere così sicura. Credo che siamo scappate via tutte e due, ognuna a modo suo. Michael è diverso — aggiunse.

— Che cosa intendi? — chiese Karen, leggermente spaventata.

— Non ha mai imparato ad averne paura. Ha fatto delle domande alle quali né io né tu possiamo rispondere. Abbiamo ereditato tutto questo? È un miracolo, o è qualcosa che possiamo capire?

Karen scosse il capo. — Non ci sono risposte.

— Non possiamo esserne certe. Non le abbiamo mai cercate veramente.

— E come avremmo dovuto fare?

— Karen, non lo so. Ma io credo che dovremmo cominciare da casa, con mamma e papà. E probabilmente dovremmo anche parlarne a Tim.

— Ma è assurdo.

— Lo è?

— Qui siamo al sicuro.

— Lo siamo? — ribatté Laura.

— Che cosa vuoi dire?

Parlò con tono attento e misurato. — L’Uomo Grigio. Questa è un’altra cosa della quale non abbiamo mai parlato. Ma è lo stesso uomo, non è vero? Lo stesso uomo che vedemmo quella sera nella gola, con Tim, tanti anni fa.