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— Andremo tutti — interviene Laura con tono deciso. — Solo un pochino — e la sua manina si chiude sul braccio della sorella. — Non lontano.

E prima che Karen possa fermarli, prima ancora che riesca a pensarci, hanno già attraversato l’arco tutti e tre.

Non è facile capire che cosa sia accaduto, per lei. Un attimo prima si trovavano nel profondo del bosco, e ora sono in qualche luogo buio e duro. Sotto ai suoi piedi c’è un pavimento di ciottoli, e l’eco del suo respiro rimbalza come fra due muri. Un vicolo. Sbatte le palpebre, atterrita. Vede dei bidoni di metallo stracolmi di spazzatura. Un topo (si tratta chiaramente di un topo, e non di un procione) si aggira in mezzo ai rifiuti, annusando qua e là. In fondo al vicolo, le luci della strada creano ombre lunghe e inquietanti.

— L’oceano — ricorda Laura a Tim. — Hai detto che avremmo potuto vedere l’oceano.

— Da questa parte — dice suo fratello.

Il cuore di Karen batte contro le sue costole. È una pazzia, pensa. Quale oceano? Non esiste oceano. Noi viviamo a Pittsburgh, in Pennsylvania! Ricorda vividamente una parte di geografia imparata a scuola. Le uniche masse d’acqua che lambiscono Pittsburgh sono i fiumi Allegheny e Monongahela, che si uniscono per creare il potente Ohio. Una volta ha fatto anche una gita in barca. Si ricorda i vecchi ponti di travi d’acciaio e la soggezione che le avevano ispirato. Non c’è nessun oceano, lì.

Ma svoltano l’angolo, seguono la strada, che lei non riconosce, e Karen riconosce nell’aria l’odore piccante del sale, assieme a qualcosa di più aspro: ozono. E delle grida distanti, che potrebbero essere quelle dei gabbiani in amore.

La strada stessa è talmente strana che lei si sente come se dovesse ricordarla. Anche gli edifici sono strani; strutture a due o tre piani, con quell’aspetto tratteggiato delle case delle fiabe che ha visto nei suoi libri di favole, con i comignoli di mattoni che si stagliano contro il cielo nuvoloso. (Ma non c’erano le stelle, prima?) Il vento è fresco, anzi peggio, è freddo, e lei indossa solo la camicia da notte. Il suo tallone nudo scivola su una vecchia lisca di pesce abbandonata sui ciottoli scuri. Afferra il braccio di Laura.

Salgono su una collina.

Improvvisamente, la città si estende sotto di loro.

La confusione di Karen diviene completa: questa non è Pittsburgh!

Non è Pittsburgh, ma è sempre una città molto grande. Per lo più è caratterizzata da un tipo di architettura un po’ pretenziosa, dalle vie strette e sinuose punteggiate di fabbriche e fonderie, che sono gli unici edifici illuminati, con le finestre alte e sbarrate che riversano all’esterno la luce rossa e gialla delle fornaci. Più in la, dopo un avvallamento, la città pare più moderna; Karen riesce a distinguere dei palazzi che assomigliano a quelli del centro (di Pittsburgh), solo che questi sembrano fatti di ossidiana nera oppure di lastroni tozzi e scoloriti. Sulla cima di uno di questi edifici è ancorato un dirigibile.

Ma più meraviglioso di tutto ciò, ecco il mare.

Dal punto in cui si trovano, la strada conduce ai moli. Ci sono file infinite di magazzini di legno. All’interno, dalle finestre cavernose, Karen vede gente che si muove. In un certo senso, è rassicurante vedere che ci sono delle persone. Suggerisce qualche genere di normalità. Se dovesse gridare aiuto, qualcuno la potrebbe sentire. Oltre i magazzini, un lungo pontile illuminato si insinua nell’acqua oleosa. Vi sono ormeggiate alcune navi; certe hanno alberi di legno, altre no. Una in particolare è immensa, come una petroliera.

La stranezza della scena inizia a farle un certo effetto. Ha la netta sensazione di essere arrivata, in un modo o nell’altro, in un luogo molto lontano da casa. Si è persa… si sono persi tutti. Pensa all’arco che ha disegnato Timmy nell’aria buia del bosco, la loro unica porta… sono in grado di ritrovarla? O è svanita?

— Va bene — dice. — L’abbiamo visto. Eccolo lì. Ora dobbiamo tornare a casa.

— Ha paura — dice Timmy a Laura. — Te l’avevo detto.

Ma Laura la guarda con comprensione. — No… Karen ha ragione. Dobbiamo tornare — rabbrividisce. — Fa freddo.

— Fa sempre freddo qua.

Karen non si ferma a pensare che cosa voglia dire. — Andiamo — dice.

Timmy emette un elaborato sospiro, ma decide di cooperare, trovandosi in minoranza. Tornano sui loro passi. La viuzza stretta, vista da questa direzione, sembra completamente nuova. Dentro Karen, la molla del panico si carica sempre di più… e se si fossero persi veramente?

Ma no, pensa, ecco il vicolo, laggiù. Stringe Laura più forte, come non volesse perderla. Afferra anche la mano di Timmy, che resiste per un attimo, ma poi cede.

La fiducia di papà non era riposta male. Lei è in grado di proteggerli.

Ma mentre si avvicinano all’imbocco del vicolo, un uomo spunta dall’ombra.

Li sta guardando fisso. È piuttosto alto, e indossa un vestito e un cappello, entrambi grigi. Sembra un tipo normale, come quelli che vanno a lavorare in tram la mattina. Ma c’è qualcosa nell’intensità del suo sguardo, nel modo in cui sorride, che amplifica la paura di Karen. Una ventata solleva il suo soprabito, e alcuni fiocchi di neve passano vorticando nell’aria.

— Salve — dice. — Come va?

Rimangono impalati, esterrefatti. La voce dell’uomo produce un’eco nella via deserta.

Sempre sorridendo, si avvicina con cautela di alcuni passi. Karen scorge qualcosa di familiare in quel volto, in quei lineamenti, in quegli occhi grandi… qualcosa che non riesce a collocare.

— Dobbiamo tornare — dice Timmy, per la prima volta con un filo d’incertezza nella voce.

L’uomo annuisce. — Lo so. Tutti devono tornare a casa prima o poi, non è vero? Ma guardate; ho dei regali per voi.

Infila una mano nel cappotto. Timmy aspetta, circospetto ma non spaventato. Conosce già quest’uomo, pensa Karen; è già stato qua.

Lo sconosciuto estrae dalle profondità delle sue tasche un fermacarte di vetro, di quelli che si scuotono e dentro nevica. Lo porge a Tim.

Il bambino rimane impalato a fissarlo.

— I regni della Terra — dice l’uomo.

Tim prende la sfera di vetro e la tiene in mano con aria solenne.

Il soprabito è magico, insondabile. Sorridendo, l’uomo infila nuovamente la mano ed estrae, esclamando “voilà!”, un piccolo specchietto di plastica rosa, del genere economico che si può comprare in drogheria. Lo porge a Laura.

— Avanti — le dice. — È un regalo per conoscerti meglio.

Una parte di Karen vuole strillare no. Ma Laura, con una smorfia, accetta il dono e l’osserva.

— La più bella del reame — dice l’uomo, sorridendo.

Karen si fa piccola piccola, sapendo che ora tocca a lei.

Lo sconosciuto la guarda direttamente negli occhi. Assomiglia agli uomini dei programmi televisivi, come Elliot Ness nella serie Gli Intoccabili; rozzo ma affascinante. Il suo sorriso è molto convincente. Ma i suoi occhi grigi sono freddi come la neve e vuoti come la strada.

Infila nuovamente una mano nel cappotto.

Questa volta, ne toglie una piccola bambola.

Un bambolina di plastica, nuda, circa delle dimensioni di un pollice. Non è un granché, ma lei stranamente ne è attratta. La colpisce soprattutto l’espressione del viso, grezzamente scolpita. Sembra chiedere aiuto.

Sopraffatta, afferra la bambola e se la infila in tasca.

— Il tuo figlio primogenito — dice l’uomo con voce dolce.

Le parole fanno scattare degli allarmi silenziosi dentro di lei. È come se si fosse risvegliata da un sogno. — Andiamo — dice, prendendo finalmente in mano la situazione. Stringe più forte le braccine carnose di Timmy e Laura. — Ora! — grida. — Correte, su!