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— Sono con Laura — disse Karen.

Aveva fatto male, naturalmente, a dirlo così, senza preavviso. Sua madre non poté far altro che ripetere: — Laura?

— Io e Michael siamo con lei. È qui, proprio qui in questa stanza con me.

Seguì ancora il silenzio. — Non capisco.

— Be’, è un po’ difficile da spiegare, mamma. Siamo qui in California, nel deserto. Stiamo venendo a est.

— Venendo qui?

— Sì mamma.

La comunicazione sembrò interrompersi per un attimo.

— Mamma?

— Sì…

— Mamma, ci sono problemi? — La sua voce si era fatta improvvisamente forte e infantile persino alle sue stesse orecchie. — Ci metteremo un po’ di giorni guidando, sai… ci vuole tempo…

— C’è tuo padre.

— Lo so. Ma non c’è problema, non è vero? Non puoi parlargli?

— Be’ — rispose la donna con voce dubbiosa — ci proverò. Ma se c’è qualcosa che va male, bambina, lo sai che me lo dovresti dire.

— Non posso farlo adesso.

— Si tratta di Gavin?

— Non sono con Gavin.

— Ha telefonato qui, sai. Ti sta cercando.

Questo la sorprese. — Il problema non è Gavin.

— No — disse sua madre — lo immaginavo.

Karen rifletté su quell’eco di angoscia e di paura; era forse stato tutto inevitabile fin dall’inizio? Quella telefonata, quel ritorno a casa?

— Ti voglio bene — disse Karen.

Il telefono gracchiò. — Lo so che mi vuoi bene… lo so.

— Dillo a papà.

— Ci proverò.

— Ci vediamo presto, allora.

— Sì.

Il silenzio che seguì fu profondo e invalicabile.

Arizona, New Mexico, le Montagne Rocciose e una minaccia di neve prematura; poi le pianure autunnali. La stagione delle ferie era già finita, e di conseguenza non c’era molto traffico sulle ampie strade statali; soprattutto di camion. Tuttavia, era possibile immaginare di essere in vacanza. Noi siamo una famiglia, pensò Karen, e ora parliamo e ci comportiamo come una famiglia; cantiamo canzoni in macchina e mangiamo da Howard Johnson’s. Alle volte, cullata dal movimento dell’automobile, si sentiva completa; spensierata e felice.

Ma non durava mai molto.

Si fermarono per cenare a un ristorante della catena Trailways da qualche parte nell’Ohio. Non era proprio certa di dove si trovassero, a parte il fatto che avevano guidato attraverso vastissimi campi di grano per l’ultima ora e mezzo. Laura prese una copia di USA Today alla cassa e la portò al tavolo. La spiegò, così anche Karen poté vedere ciò che leggeva. Si trattava di un articolo in seconda pagina sulle statistiche degli omicidi a Detroit nell’anno 1988. Laura lo lesse due volte, con una smorfia così intensa che sembrava stesse per scoppiare in lacrime. Poi alzò gli occhi in direzione di Karen e disse: — Non è normale! — come se stessero discutendo. — Cristo, è orribile! E peggio, è così fottutamente inutile!

L’uomo al tavolo accanto sbirciò da sotto il suo cappellino da baseball, ammiccando. La cameriera, passando, non riempì le loro tazze di caffè.

Michael fissò sua zia, inespressivo.

E Karen pensò; allora è vero. Noi siamo quello che siamo e l’Uomo Grigio esiste, e può uccidere la gente, e mio figlio, il mio unico figlio, Michael, è in grave pericolo, e noi stiamo andando a casa. Dio mio, dopo tutti questi anni di silenzio, stiamo veramente tornando a casa.

Arrivarono in cima a un promontorio alberato, e Laura vide il paese. Era lì, lungo il fiume Monongahela, un altro di quei malandati e vecchi paesini industriali con gli antichi forni a carbone, le fonderie e gli altiforni che guastavano l’aria (ma non come una volta, quando l’industria prosperava); con le case di legno e le case a schiera, tutte costruite negli anni venti, o anche prima, quando le ferrovie stavano guadagnando a palate e c’era una grossa richiesta di acciaio e di carbone bituminoso.

La vista di Polger Valley da quell’altezza evocò in lei una tale ondata di ricordi che fermò la macchina sul ciglio della strada, stringendo forte il volante. Lei non era mai vissuta lì; se n’era andata di casa un mese prima che mamma e papà lasciassero Duquesne. Eppure era come tutti gli altri posti in cui avevano abitato; era come Duquesne, ed era come Burleigh; era come Pittsburgh, con le sue colline e le sue viuzze strette. Si voltò verso Karen, seduta accanto a lei con lo sguardo fisso da qualche parte al di là del fiume. — Guida tu — disse Laura. — Tu sai la strada.

Sua sorella scrollò le spalle.

Laura uscì dalla macchina e camminò fino alla porta del passeggero. Sentiva le gambe irrigidite dalla lunga guida. Era un pomeriggio freddo e nuvoloso, e ormai era quasi sera; gli esili aceri di collina erano sottili e spogli. La luce tremolante di qualche lampione giungeva dalle distanti, deserte vie industriali lungo il fiume.

Entrando in macchina lanciò uno sguardo a Michael, che era seduto dietro. Stava fissando anche lui la vallata, perso in qualche suo pensiero. Da quando avevano lasciato la California, era sempre stato cupo come in quel momento.

Laura abbassò il suo finestrino. — Fa freddo là dietro?

Michael si limitò a scrollare le spalle.

La settimana prima, in una camera d’albergo fuori Cleveland, Laura gli aveva chiesto perché fosse così silenzioso in quegli ultimi giorni. Karen era andata a comperare degli indumenti invernali; Michael era seduto sul letto, e guardava una partita di football senza volume. Le aveva lanciato uno sguardo rapido, infelice. — Lo sono?

— Lo sei. Ma non sei solo silenzioso, sei arrabbiato e silenzioso. Con chi ce l’hai, Michael?

Lui scrollò le spalle.

— Con me?

— Devo parlarne per forza?

— No; certo che no. Ma siamo tutti sulla stessa barca, e su questo non ci sono dubbi. Forse se ne parlassi ci renderesti la vita più facile.

Il ragazzo scrollò nuovamente le spalle. — Penso solo che sia stupido… insomma, tutto questo sarebbe dovuto accadere tempo fa.

— Tutto questo?

— Ciò che stiamo facendo. Dove stiamo andando. Ciò che stiamo cercando di scoprire. — Raddrizzò le spalle. — Voglio dire che voi sapevate che cosa eravate. Per tutta la vita l’avete saputo; tutti e tre. Eppure nessuno ha mai chiesto niente. Nessuno ha mai detto “da dove vengo?” O “che cosa sono?” Perché solo adesso?

Appoggiò la schiena alla parete e si strinse le ginocchia con le braccia.

— Siamo negligenti e ti abbiamo mandato all’aria la tua vita, è questo il punto? — chiese Laura.

— Forse. Forse non solo la mia vita.

— E allora, Michael, a chi avremmo dovuto domandare?

— A chi avete intenzione di domandarlo?

Va bene, pensò Laura. È un ragazzo intelligente, e non ha tutti i torti. Ma lui non capiva realmente la situazione. Aveva quindici anni, e per lui tutto era fin troppo ovvio. — Tu non sai come si stava a casa.

— Lo so, era dura. Ma…

— Michael, ascoltami. — Si sedette accanto a lui, e forse lui avvertì la serietà nella sua voce, poiché tacque nuovamente, non più accigliato ma interessato. — Io l’ho chiesto una volta — continuò Laura. — Avrò avuto cinque, o forse sei anni. Andai da papà, e gli mostrai quello che sapevo fare. Feci una piccola finestra per lui. Una finestra in un posto bellino, in quello che un bambino considera un posto carino, con una giornata soleggiata, e, sai, fiori, prati, e un cerbiatto lì in piedi. Volevo scoprire se lo sapeva fare anche lui. Penso che più che altro volevo sapere che cosa dovevo farci, con quello strano giochetto. A che cosa serviva.

— E lui non te l’ha detto? — chiese Michael.

— Non mi ricordo ciò che disse. Mi ricordo solo che glielo mostrai, e che volevo una spiegazione. E poi mi ricordo che mi ritrovai a letto, e che avevo dei lividi sul viso. Lividi sulle braccia. Cinque lividi molto chiari sopra il gomito destro, e sapevo che mi aveva afferrato in quel punto, che i lividi combaciavano con la forma e la posizione delle sue dita.