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— Ti ha picchiata — disse Michael.

— Sì, sembra terribile ma… sì, è quella la parola giusta.

— È terribile — lo sdegno di Michael era palese e sentito. — Devi averlo odiato per questo.

— No, non l’ho odiato.

Michael fece una smorfia.

— Tu odi forse tuo padre? — chiese Laura. — Voglio dire; lui vi ha mollati. Ha mollato te e tua madre. È una cosa abbastanza grave. Tu lo odi per questo?

— No — rispose con tono più cauto. — Ma è diverso.

— Lo è veramente? Forse è solo una questione di grado.

— Lui non mi ha mai picchiato.

— E avrei dovuto odiare papà per questo? Be’ forse hai ragione… forse avrei dovuto odiarlo. Tim l’odiava, per lo meno alla fine. Michael, io ero troppo giovane. Quando hai cinque anni, non conosci quel tipo di odio. Perdoni. Non perché vuoi perdonare, ma perché non hai altra scelta. Lo capisci questo? A volte si perdona perché non c’è nient’altro da fare.

Era più di quanto avesse voluto dire.

Michael la fissò.

— Ma ora — disse — la scelta ce l’hai.

E non c’era niente che Laura potesse ribattere a quella constatazione… non riusciva a pensare a una risposta.

Parcheggiarono davanti alla casa poco prima che facesse buio.

Era una vecchia casa a schiera su una collina che scendeva sul fiume. Alle sue spalle, c’era una ripida discesa in mezzo ai boschi. La via si chiamava Montpellier, e terminava davanti a una collina di gesso.

Non era certo il miglior quartiere del paese; alcune case erano state riparate o ristrutturate; altre no. Una volta, pensò Laura, quella via sarebbe stata piena di gente che lavorava; polacchi e tedeschi; ma ora la maggior parte di quella gente era stata licenziata dalle fonderie, e mentre parcheggiavano, notò diversi visi neri che sbirciavano da dietro le finestre chiuse. In basso, dove Montpelier si incrociava con Riverside, c’era un bar grande e rumoroso. Riverside, una via commerciale, era piena di botteghe di usurai, che venivano sbarrate al calare delle prime tenebre.

Era strano che i loro genitori fossero rimasti lì così a lungo. Per tutta la mia vita, pensò, abbiamo traslocato ogni anno, ogni due anni. A volte perché papà veniva licenziato per il troppo bere, a volte per nessun motivo comprensibile. Qui, finalmente, si erano stabilizzati. Forse perché erano finalmente da soli; o magari perché papà era finalmente riuscito a guadagnare un certo prestigio alla fonderia locale.

Forse perché ce ne siamo andati noi.

Ma ora, pensò, siamo a casa.

Una lampadina gialla era accesa sulla veranda. Karen parcheggiò parallela al marciapiede, e Laura scaricò i bagagli dal baule. Michael prese una valigia. Osservò la casa con aria stanca. — Allora — disse — è questa?

La porta d’ingresso si aprì scricchiolando. Mamma fece un passo nella luce della veranda. Le mani di Laura tremavano; le serrò entrambe davanti a sé.

— Si — rispose al nipote. — È questa.

13

Sua madre e sua zia condivisero una stanza da letto al secondo piano, ma Michael aveva il terzo piano della vecchia casa tutto per sé.

Gli piaceva lassù. I nonni erano troppo anziani per salire le scale, e di conseguenza tutto era coperto da un buono strato di polvere intatta, e tutto era antico. Mobili che avevano portato in giro per tutta la loro vita, pensò Michael. Michael era abituato alla loro casa di Toronto, che era nuova, e piena di cose nuove, come se non fosse esistito nulla prima del 1985; il terzo piano della casa dei Fauve forniva un contrasto stupefacente.

Quella prima notte, sua nonna era salita una volta da lui, annaspando lungo le scale. Si era scusata per la confusione. — Tutto questo disordine — aveva detto con aria triste. — Quando è morta nonna Lucille, abbiamo messo qua sopra tutta la sua roba. Così, questa è la nostra famiglia, vedi Michael? Questa era la scrivania del tuo bisnonno. Quel vecchio letto era dei miei genitori…

Il letto era rimasto talmente tanto tempo in quella stanza, ed era talmente pesante, che le assi del pavimento si erano curvate sotto il suo peso. Sua madre aveva cambiato le lenzuola, ma il letto manteneva ugualmente un odore caratteristico, non spiacevole, di piuma antica e di fodera per materassi; di vite intere vissute fra quelle coperte. Dormendo lì, nelle ultime due o tre notti, Michael aveva desiderato di poter aprire delle finestre nel passato, oltre che attraverso i mondi; di poter frugare negli anni fuggiti, e magari scoprire il segreto della sua stranezza. Desiderò che quel vecchio letto potesse parlare.

Passava parecchio tempo lassù. Considerando la situazione in casa, preferiva tenersi in disparte. E in ogni caso, gli piaceva stare da solo. Da solo, poteva lasciare che i suoi pensieri spaziassero liberamente. Non c’era niente da temere lassù; nessun Uomo Grigio; solo quelle vecchie stanze con le loro finestre dai vetri ondulati che mostravano il cielo invernale; solo lo sgocciolio dell’acqua nei termosifoni. Sdraiato lì, sospeso fra la piuma e la storia, poteva permettersi di sentire (ma leggermente, e con molta cautela) l’impeto della forza segreta che aveva in sé; le ruote della possibilità che giravano dentro di lui; poteva immaginare un passo laterale fuori da Polger Valley e dal tempo stesso; poteva chiedersi se l’idea di sua zia Laura di tanti anni prima non fosse stata effettivamente sensata, che forse ci poteva essere un mondo migliore da qualche parte; un mondo veramente migliore che magari lui poteva raggiungere; magari era solo a un quarto di passo di distanza, lungo qualche asse nascosta… forse era una porta che poteva imparare ad aprire.

Ci pensò spesso.

Giù, le cose erano un po’ diverse. Era in quella casa da una settimana, e Michael non si era ancora abituato a tutto quel silenzio e a quel trattamento indegno.

Sua nonna insisteva nel voler cucinare. Ogni sera l’aiutava a portare i pesanti piatti di ceramica; pollo arrosto con il sughetto, roastbeef e patate, polpettone e piselli, uscivano fumando dalla piccola cucina. Jeanne Fauve era un po’ sovrappeso ma non proprio grassa; era quel genere di donna nervosa dal metabolismo veloce. Si muoveva continuamente, ma i suoi movimenti erano bruschi; nessun gesto ampio, solo una perenne agitazione. Le mani si muovevano come uccellini, e anche gli occhi guizzavano come quelli di un uccellino. I suoi capelli consistevano in tanti boccoli bianchi, tutti legati strettamente attorno al cranio. Quella donna gli piaceva abbastanza; e pensò che forse anche lui piaceva a lei. Quando Michael era distratto, lei lo fissava pensierosa. Ma se la guardava negli occhi, lei distoglieva lo sguardo.

Quella sera Michael l’aiutò a portare un arrosto dal forno alla tavola. Tutto era in perfetto ordine; la tovaglia di lino, i piatti in ceramica, l’argenteria annerita. Tutti ai loro posti tranne il nonno. Michael si sedette a capotavola. Aveva fame, e l’arrosto aveva un profumo fantastico, ma aveva imparato ad essere paziente. Si mise le mani in grembo; l’orologio sopra il caminetto ticchettò. Sua madre sussurrò qualcosa alla zia Laura.

Poi, finalmente, Willis Fauve giunse a lenti passi dal bagno, dov’era andato a lavarsi le mani. Willis non era molto grosso come uomo, pensò Michael, ma era una grossa presenza in quella stanza. I suoi avambracci erano massicci. Portava pantaloni di poliestere stretti sopra il pancione sporgente, e una camicia bianca inamidata aperta fino all’ultimo bottone. Aveva un viso piccolo, anche se la testa era grossa. Attorno ai pesanti occhiali bifocali i lineamenti del viso erano piuttosto duri. Portava i capelli tagliati a spazzola, e le sopracciglia folte lo facevano sembrare sempre imbronciato. In effetti, per la maggior parte del tempo lui era imbronciato. Certamente non sembrava mai felice.