A volte si vedeva a tavola ubriaco. Non in maniera fastidiosa o lampante, ma arrivava con passo malfermo e parlava un po’ più del solito; soprattutto si lamentava dei vicini. Si sedeva al capo del tavolo di faccia a Michael, e il suo fiato acre attraversava la tavolata. Willis Fauve era un bevitore di birra. La birra, diceva, era come il cibo. Aveva il suo valore nutritivo.
Quella sera Willis era appena appena ubriaco. Michael pensava a lui come “Willis” perché non riusciva proprio a chiamare quell’uomo “nonno”. L’idea che lui aveva dei nonni era quella che gli aveva insegnato la TV; uomini benevoli dai capelli grigi con i loro pantaloni a salopette. Ma Willis non era benevolo; non era neanche gentile. Aveva fatto capire in maniera piuttosto chiara che per lui quella visita era un’intrusione, e che non sarebbe stato contento finché non gli fosse stata resa la sua intimità. A volte, se aveva bevuto abbastanza, lo diceva anche.
Willis si sedette ansimando. Senza guardare nessuno, unì le mani in grembo e chiuse gli occhi. Michael avrebbe dovuto fare la stesa cosa, ma tenne invece gli occhi aperti. — Grazie, o Signore — intonò Willis Fauve — per questo cibo che hai avuto la bontà di farci trovare. Amen.
La nonna di Michael fece eco all’“Amen”. Willis iniziò a tagliare l’arrosto, Michael prese una porzione modesta.
Mentre mangiava, sentì che l’attenzione di suo nonno era concentrata su di lui. Tenne gli occhi sul piatto, facendo lavorare meccanicamente la forchetta e il coltello. Ma sentiva lo sguardo di Willis sempre incollato addosso. La nonna tentò di fare un po’ di conversazione, sulla spesa che aveva fatto, su quello che le aveva detto il parrucchiere, ma nessuno riusciva a pensare a qualcosa da aggiungere, e così il tentativo si spense presto. Michael aveva quasi finito di mangiare, e non vedeva l’ora che il pasto finisse quando suo nonno disse, a voce troppo alta: — Lo sai come la chiamo io quella maglietta?
La maglietta di Michael, intendeva. Michael indossava una maglietta dei Talking Heads che si era portato da Toronto. Consisteva in una grossa “T” nera, con un disegno grafico bianco e rosso sullo sfondo. Non era niente di eccezionale, ma Michael era moderatamente compiaciuto del modo in cui gli stava addosso.
Nessuno voleva rispondere alla domanda tranne lo stesso Willis. Con candore, Willis disse; — Io la chiamo una maglietta vaffanculo.
Michael fissò suo nonno, stupefatto.
— Io li vedo questi ragazzi — continuò Willis. — Io passo davanti alla scuola tutte le mattine. Io lo vedo, il modo in cui si vestono. E sapete perché si vestono così? È come alzare il dito medio. È un insulto. È “vaffanculo”. Loro lo dicono con i loro vestiti.
Michael aveva notato che Willis, che si lamentava sempre del linguaggio triviale alla TV, si lasciava spesso andare sotto quel punto di vista, quando era un po’ alticcio.
— Michael ha dimenticato di cambiarsi prima di cena — disse Karen.
Michael si voltò di scatto verso sua madre. Lei gli restituì lo sguardo, come un avvertimento: Non dire nulla… non ora.
— Una maglietta vaffanculo — ripeté Willis.
— Michael — disse Karen — vatti a cambiare. —Vedendo che Michael non si muoveva, insistette: — Per favore!
Michael si alzò in piedi con aria solenne.
Giunto alle scale, si fermò un attimo per dare uno sguardo al tavolo da pranzo, alla silenziosa tavolata di donne con il capo contritamente chinato, con Willis Fauve che lo fissava ancora, con una smorfia sul viso. Per un attimo, i loro sguardi si incrociarono.
Fu Willis che abbassò lo sguardo per primo. — Lo lasci vestire così? — disse alla figlia.
Michael salì le scale.
— Una maglietta vaffanculo — continuò Willis — al mio tavolo da pranzo.
Ma Michael aveva capito il significato della lamentela di Willis. Non è la maglietta, pensò. Tu lo sai, e io lo so. Non è della maglietta che hai paura.
In camera sua, Michael pensò a Willis e al silenzio di quella cena.
Dalla finestra del suo attico poteva vedere i tetti di Polger Valley, e più in là, il fiume e la fonderia. La fonderia dominava la vallata come un animale nero rannicchiato. Le ciminiere erano opache e inattive nel grigiore profondo dell’oscurità. Michael appoggiò le mani alla finestra. Il vetro era ghiacciato sotto le sue dita. Presto sarebbe venuta la neve, pensò.
Si tenne addosso la maglietta.
Naturalmente non si trattava della maglietta, ma del potere che aveva. Willis doveva averlo percepito. Michael pensò a quanto gli aveva detto Laura, e ad alcune cose che aveva intuito dai discorsi di sua madre. Capì che la maglietta era totalmente irrilevante, che Willis avrebbe potuto criticare con altrettanta facilità il suo taglio di capelli, le sue scarpe, o il modo in cui teneva la forchetta. Il vero significato del suo gesto era: ecco una nuova persona sotto il mio tetto; non la posso controllare, e la cosa non mi piace.
Michael lo capiva anche perché la casa di Toronto funzionava più o meno allo stesso modo, beninteso senza quella minaccia di violenza. Riconobbe in Willis l’ombra dei silenzi critici di sua madre. Lui era cresciuto in quel silenzio. Tra le parole non pronunciate. Quella di Willis non era una cosa nuova; era solo più forte e più spaventosa.
Si domandò se quello non fosse il modo in cui funzionavano tutte le famiglie, se le paure venissero tramandate di generazione in generazione, come il colore dei capelli o degli occhi. Forse era come una specie di maledizione, una cosa alla quale non si poteva sfuggire, che ci si portava dietro che lo si volesse o meno.
Eppure, pensò, alcune cose cambiano. Willis contava molto sulla sua abilità nello spaventare la gente, e funzionava; sua madre aveva paura di lui, e persino Laura ne aveva…
Ma non io, pensò Michael.
Non io.
Si sdraiò sul letto mentre cominciavano a calare le tenebre, e guardò la prima neve dell’inverno che picchiettava sulla finestra. Provò per un attimo il brivido della forza dentro di sé, e pensò; diavolo, io sono molto più in là di Willis Fauve. Non mi spaventa per niente.
Quando passò Karen per dargli la buona notte, Michael stava già dormicchiando. Cullato dal vecchio letto, sembrava quasi tornato bambino. Come era prevedibile, aveva ancora addosso la maglietta. Invece di svegliarlo, lei gli rimboccò le coperte e si riavvicinò alla porta in punta di piedi.
Michael si mosse quanto bastava per aprire un occhio, e disse una strana cosa, con un filo di voce, dal profondo dei suoi sogni.
— Non avere paura — disse.
— Non ne avrò — disse Karen. — Dormi, ora. — E accostò la porta.
Ma lei aveva paura.
Aveva paura dell’Uomo Grigio, e aveva paura di suo padre.
La profondità della sua paura la sorprendeva. Forse era ovvio, forse avrebbe dovuto aspettarsela. Dopo tutto, che cos’era cambiato? Be’, ora era adulta, si era sposata, e aveva vissuto da sola. Tutto ciò avrebbe dovuto cambiare un po’ le cose. Eppure non aveva cambiato niente, e forse anche questo era ovvio; forse le relazioni da genitore a figlio, da padre a figlia, erano permanenti, e senza tempo. Davanti a Willis lei era sempre una bambina; sventurata e sottomessa. Non era tanto quello che diceva, ma la forza con la quale lo diceva… l’assoluta certezza mascolina che riusciva a proiettare. Le sue parole erano come porte di un altoforno privato che Willis Fauve alimentava dentro di sé; attraverso le parole, lei ne sentiva il calore.
Il giorno dopo, quando Willis se ne fu andato al lavoro, Karen aiutò sua madre a fare il bucato. Nel pomeriggio portò la cesta di plastica piena di panni lavati fino al secondo piano, dove la stava aspettando Laura. Karen si sedette con sua sorella nella camera degli ospiti, piegando lenzuola. Erano ancora calde dall’asciugatrice della cantina, e l’ammorbidente aveva dato loro un delicato profumo di lavanda.