— Non stiamo arrivando da nessuna parte — disse Laura.
— Lo so — rispose Karen. Anche lei era spaventata da quell’immobilità. — È più dura di quanto pensassi.
— È dura perché non è cambiato nulla — Laura spiegò un lenzuolo sul letto. — Tutti sono più vecchi, ma non è cambiato proprio nulla. Dicono che non si può mai tornare a casa, ma ciò che mi spaventa è che invece si può, eccome… è fin troppo facile ricadere negli stessi errori.
— Errori? — disse Karen.
— Sai bene cosa voglio dire. Lui è un despota come sempre, qui. L’hai visto a cena, come urlava a Michael. E noi siamo rimaste lì impalate. L’abbiamo accettato. Nessuno sfida William Fauve; nossignore, non nel suo territorio.
— Be’, lo è, no? È il suo territorio.
— È stata anche la nostra casa per vent’anni, per Dio! Siamo vissuti sotto il suo tetto come prigionieri… solo Tim ha trovato qualcosa da ridire.
Ma guarda che cosa è successo a Tim, pensò Karen. Tim era scomparso nel grande mondo; per quello che si sapeva di lui, poteva anche essere morto. Forse era morto. O forse peggio. Forse l’aveva trovato l’Uomo Grigio.
Piegò quel pensiero traditore in un cassetto assieme ad alcune lenzuola. — Tim era più coraggioso di noi.
— Coraggioso o stupido. O forse gli piaceva semplicemente essere picchiato. Ma almeno lui reagiva.
Karen pensò dentro di sé che Tim era come un piccolo cane spaventato; più lo prendi a calci, più cerca di morderti… finché non riesce a spezzare la corda che lo tiene legato, e allora scappa via. Tim, dopo diciassette anni, era riuscito finalmente a spezzare la sua corda. — Non scopriremo nulla da papà — disse.
— Non abbiamo ancora cercato di scoprire nulla da nessuno — Laura lisciò il lenzuolo sul materasso e infilò i due vecchi cuscini nelle federe a fiori. — È alla mamma che dovremmo parlare.
— Non le piacerà.
— Se aspettiamo che le faccia piacere — disse Laura — possiamo anche aspettare una ventina d’anni.
Il che era innegabile.
— Ora — disse Laura. — Dovremmo parlarle ora.
Karen esitò, e poi rifletté sulla sua riluttanza. — E non ti spaventa affatto… ciò che potrebbe dire? Non hai pensato che cosa potrebbe significare… saperlo?
Laura camminò con lei fino alle scale. Ora erano tornate sorelle, questo era certo. Il tempo non era passato; erano ancora bambine. — Io ho più paura di quello che potrebbe accadere se non sappiamo — disse Laura.
Improvvisamente, la casa sembrò più fredda.
Mamma era in cucina che asciugava i piatti.
Com’è piena di ricordi questa casa, pensò Karen. Ma non tanto la casa, pensò, quanto l’arredamento, la disposizione degli oggetti. La cucina era identica alla cucina di tutte le altre case in cui avevano abitato. La carta da parati si stava spelando, e i pensili erano dipinti di un giallino insulso e scolorito. I canovacci erano appesi a un supporto di legno e i piatti erano ammucchiati in uno scolatoio Kresge’s bianco. Tazze appese a ganci, presine per le pentole a forma di galli incastrati dietro il tostapane, e un lavoro di uncinetto fatto a mano con un passaggio del Vecchio Testamento. Era pomeriggio inoltrato, e dalla finestra della cucina si vedeva lo squallido cortile coperto da un sottilissimo strato di neve farinosa, più in là le colline, e il cielo vuoto. Papà sarebbe tornato nel giro di un’ora o due… o anche più, se si fermava a bere qualcosa.
Fu Laura che trovò il coraggio di dire: — Mamma, dobbiamo parlarti.
Jeanne Fauve alzò lo sguardo. — Parlare di che cosa?
— Dei vecchi tempi.
La donna rimase immobile per qualche secondo, poi appoggiò il piatto che stava asciugando, e si voltò verso la figlia. La sua espressione era immobile, indecifrabile. — Aspetta qui — disse infine, e uscì dalla stanza.
Karen si sedette con sua sorella al tavolo della cucina, tracciando disegni con il dito sulla superficie di formica scheggiata. Quanti anni aveva quel tavolo? La sua stessa età? Dio mio, pensò; non abbiamo bisogno di scavare nel passato; il passato è tutto qui, attorno a noi.
La madre tornò con una scatola da scarpe sotto braccio. Si sedette anche lei e aprì il coperchio.
Era piena di fotografie.
— Questi sono i vecchi tempi — disse. — Tutte queste foto. — Svuotò la scatola sul tavolo.
Karen frugò nel mucchio. Le foto erano molto invecchiate; si ricordava le macchine fotografiche che aveva avuto sua madre; una Kodak Brownie, che aveva prodotto la maggior parte di quelle foto in bianco e nero ritoccate, e più avanti una grossa Polaroid di plastica, del tipo in cui la foto usciva da sola, e poi bisognava passarla con un fissatore dall’odore acido.
— Ecco — disse mamma. — La casa di Costantinopole… ve la ricordate?
Karen studiò bene la foto. Doveva averla scattata papà; era una foto di mamma vicino alla loro nuova macchina, una Rambler blu metallizzata parcheggiata davanti alla casa. Karen, Laura e Tim erano sullo sfondo, appoggiati con aria svogliata alla ringhiera del terrazzo. Che aria annoiata abbiamo, pensò Karen. Doveva essere stato un giorno di chiesa; erano tutti vestiti bene, mamma con il suo cappellino quadrato, con il ridicolo velo di maglia nera, e Karen e Laura con gli abitini bianchi inamidati. Tim indossava un vestito nero con il colletto. Lui aveva sempre odiato quei colletti. Gli spingevano la sua ciccia di bambino verso il mento, dando al suo viso un’aria porcina.
In un attimo di capogiro ricordò il suo sogno; la gola dietro la casa, la sera in cui erano entrati in un mondo macabro concepito da Tim. E non era solo un sogno. Era un ricordo. Era reale come quella fotografia.
Se avessimo portato la Kodak Brownie della mamma attraverso quella Porta, pensò, forse avremmo potuto avere una foto; una foto di quella strana città, una foto dell’Uomo Grigio.
Nella sua mente, l’Uomo Grigio disse: Il tuo figlio primogenito.
— Quelli erano bei tempi — stava dicendo sua madre. — Vostro padre aveva un lavoro fisso. E io amavo quella vecchia casa di Costantinopole più di ogni altro posto in cui ho vissuto da allora. Anche più di questo posto qui.
— E allora perché ve ne siete andati? — chiese Laura.
Laura era concentrata, attenta; Laura non si era fatta distrarre dalle fotografie.
— Be’, sapete — disse mamma — vi ricordate quello che vi dicevo quando eravate ragazzini? Noi siamo zingari, ci muoviamo sempre…
— Questo non è un motivo — disse Laura.
La donna esitò un attimo, poi tornò a concentrarsi completamente sulle fotografie. — Ecco l’appartamento nel West End. Karen, tu eri in quinta elementare quell’anno. Questo era il giorno del tuo compleanno; te lo ricordi? Qui è quando abbiamo traslocato a Bethel. Quello è Tim su un tram che va in centro. Qui siamo con nonna Lucille mentre facciamo un’escursione in barca attorno alla punta; credo che fosse il 1965, o o il ’66, l’anno che abbiamo avuto un sacco di lucciole. Oh, ed eccomi qua. Ero magra a quell’epoca. Sto salendo sull’Incline con vostro padre. Ecco…
Laura l’interruppe. — Non ci sono foto di quando eravamo bebé.
Jeanne Fauve tacque, con gli occhi fissi sul mucchio di fotografie.
Laura continuò: — È che mi sembra strano. Non ci sono foto di noi da piccoli. E poi, il modo in cui traslocavamo… Voglio dire; c’è stata Costantinopole Street, c’è statavBethel; c’è stata West End, c’è stata Duquesne. E avremmo potuto rimanere tranquillamente. Papà non beveva tanto a quei tempi. E poi mi ricordo le nostre partenze. Si preparavano lo valigie, e in nottata si partiva. Come se scappassimo via. Ma mi ricordo che lasciavi sempre l’affitto in una busta bianca attaccata all’interno della porta con il nastro adesivo. Quindi scappavamo, ma non per via del denaro.