Mamma rispose con tono solenne: — È per questo che siete venute? Per rimestare quei vecchi problemi?
— È così sbagliato volerci capire qualcosa?
— Forse. Forse c’era un buon motivo se facevamo così.
— Siamo tutti cresciuti, adesso — insistette Laura. — Abbiamo il diritto di saperlo.
— Se vi poteva essere d’aiuto — disse la madre con tono veemente — credete che non ve l’avrei detto? Era solo e sempre per proteggervi… per permettervi di condurre delle vite normali.
Vite normali, pensò Karen. Era passiva in quel momento; spettatrice di quello scambio fra sua madre e sua sorella, e pensava, una vita normale è ciò che ho sempre desiderato. Una vita normale è ciò che volevo per Michael.
— Ma noi non conduciamo una vita normale — esclamò Laura. — Ma potreste farlo!
— No, non possiamo. Forse per lo stesso motivo per il quale non potevate farlo voi. — Laura prese in mano una manciata di vecchie foto consunte. Sembravano, pensò Karen, tante foglie secche. — Lui è qui?
Mamma assunse un’espressione spaventata. — Chi?
— Sai bene chi. È qui? Guarda da dietro la spalla di qualcuno? Guarda da una finestra dall’altra parte della strada mentre papà dà la cera alla sua Rambler? È per questo che traslocavamo sempre? Perché ci ha trovati in Costantinopole Street, ci ha trovati in Bethel e ci ha trovati a Duquesne?
Karen ora stava trattenendo il fiato. Pensava a quello che aveva detto Michael a proposito dell’Uomo Grigio sulla spiaggia, e al modo in cui aveva spedito quella bambina fuori dal mondo con un semplice gesto. Con i suoi occhi.
Senza fiato, mamma disse: — Non dovresti neanche nominarlo. Potresti riportarlo indietro. Porta male.
— Non importa ormai — disse Laura con fermezza. — Lui non ha bisogno della fortuna.
— Che Dio ci assista — disse mamma. L’orologio della cucina ticchettava. Una raffica di vento fece tremare il vetro della finestra. Con un filo di voce, mamma aggiunse: — Vi ha trovati?
— Ha trovato Michael a Toronto — disse Laura. — Ci ha trovati tutti e tre in California. Non c’è motivo di credere che non ci possa trovare anche qui.
— È passato così tanto tempo… credevamo che voi foste al sicuro.
— Lo pensavate? E Tim? Tim è al sicuro?
— Io prego per lui — mamma abbassò il capo. — Prego per lui come ho pregato per voi tutti questi anni.
Laura sembrava esterrefatta. Aprì la bocca, la chiuse nuovamente.
Karen si ritrovò a parlare; — Dobbiamo sapere tutto quello che c’è da sapere — le parole erano venute fuori di getto. — Non solo per noi. Per Michael.
— Ci ha quasi rovinati — disse mamma a bassa voce. — Lo capite questo? Potrebbe rovinarci ancora… Non c’è niente che io sappia che vi possa aiutare.
— Per favore — disse Karen.
Sua madre sembrava infinitamente addolorata, e, in quel lungo momento, impossibilmente vecchia. Il grembiule di cotone stampato le pendeva goffamente dalle spalle. Fuori, il vento alzò un mulinello di neve.
— Non posso — disse infine. — Cercate di capire; non ne ho mai parlato a nessuno. È difficile. Forse più tardi. Devo pensarci…
Poi la porta d’ingresso si aprì e sbatté. Una corrente d’aria gelida spazzò il pavimento. Jeanne Fauve si alzò in piedi, aggiustandosi i capelli. — È vostro padre — disse, riammucchiando tutte le fotografie nella scatola da scarpe. — Devo preparare la cena.
14
La casa era silenziosa quella notte, ma Michael non riusciva a dormire.
Le finestre buie del terzo piano erano coperte di neve. La neve, pensò, si sarebbe sciolta. Era troppo presto per quel genere di tempo. Ma la temperatura era scesa e la neve era aumentata, abbattendosi sulle vie buie, riempiendo la valle nella quale il Polger incontrava il Monongahela.
Michael aveva passato la giornata esplorando il paese, camminando da nord a sud e poi da sud a nord.
Aveva comprato un paio di libri economici da un Kresge’s dall’aria triste, e si era fermato per un po’ di calore e una tazza di caffè a un McDonald’s in Riverside. Ma soprattutto aveva camminato. Una lunga e deprimente passeggiata pomeridiana, da una parte della valle all’altra. Il paese, aveva calcolato, era circa grande quanto Turquoise Beach, ma più vecchio, più sporco, e povero in un modo diverso. Michael aveva capito che molta della gente di Turquoise Beach aveva rinunciato volontariamente all’agiatezza, e che vivevano così per poter dipingere, o scrivere, o fare musica. A Polger Valley, invece, la povertà era un incidente imprevisto; un disastro tangibile quanto il deragliamento di un treno.
Si era arrampicato su una collina fino a vedere lo sporco paese nella sua interezza, l’ampio letto del fiume, la fonderia, l’autostrada grigia, e le nuvole che incombevano rotolando da nord-ovest come fossero state l’inverno stesso. Lì in piedi con il suo cappotto pesante, Michael sentì la forza premergli dentro; più forte, gli sembrava, di quanto non fosse mai stata. Era come una corrente che usciva dalle viscere della terra, dalle vecchie vene di carbone sepolte là sotto; era un fiume che gli scorreva nel corpo. Capì che non proveniva da lui, ma che lui era solo un veicolo; quella forza era qualcosa di amico, di eterno, di fondamentale. Non aveva fine; era illimitata per definizione. L’unico fattore limitante era Michael stesso.
Io posso andare in qualsiasi luogo che immagino, pensò. I luoghi che aveva visto erano posti veri, come lo era Turquoise Beach; ma erano accessibili solo se si riusciva ad arrivarci con i propri sogni.
Ci aveva pensato camminando verso casa. Quella sera tenne testa agli sguardi persistenti di Willis. E si portò a letto i suoi pensieri.
Raggomitolato nel calore di quel letto antico con la coperta tirata su fino al mento e il vento che spazzava la neve contro la finestra, Michael continuò a pensare.
Ciò che sogniamo, siamo, pensò.
Certe cose sarebbero state chiuse per lui, per sempre. C’erano mondi che non poteva raggiungere, mondi al di là della sua portata. Li poteva sentire, là fuori, nella tempesta delle possibilità, porte sottili che non riusciva ad aprire. Gli venne in mente quello che aveva detto Laura a proposito di Turquoise Beach: è il miglior posto che sono riuscita a trovare. Lei voleva il paradiso, ma non era realmente in grado di sognarlo… forse non ci credeva realmente.
Immaginò che Laura lo sapesse, che la sua traballante bohème fosse anche una testimonianza dei suoi stessi limiti.
Ma almeno lei ci aveva provato. Michael pensò a sua madre che non aveva neanche tentato, che faceva finta di non avere neanche quel potere… e forse adesso era anche vero. Forse lo aveva perso. Forse si atrofizzava, come un muscolo. Lei aveva passato la sua vita allineandosi alle rigide norme di Willis Fauve, cercando di condurre una vita “normale”. E questo, alla fin fine, era effimero almeno quanto il paradiso di Laura.
Un mondo migliore, pensò Michael.
Forse esisteva realmente una cosa simile.
Forse lui avrebbe potuto trovarlo.
Sentì il sonno che l’avvolgeva. Sentì anche il labirinto delle possibilità, i serpeggianti corridoi del tempo. Lui poteva camminare in quel labirinto, pensò, poteva scegliere una destinazione, sentirla, seguire l’intuizione che lo chiamava… qui e qui e qui.