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Superano di corsa l’uomo grigio e si infilano nel vicolo.

L’oscurità nasconde la porta. Lei la trova grazie a una specie di sesto senso. Al di là, può già annusare il calore umido della gola.

L’oltrepassa, spingendo Tim e Laura davanti a lei. Dall’altra parte, il cielo sta iniziando a mostrare l’alba. — Dobbiamo sbrigarci — dice. — Su per la collina. Su!

Non è più il caso di disobbedire. Ormai il giorno imminente ha la priorità. I due bambini più piccoli corrono avanti.

Karen si ferma un attimo per guardarsi indietro. La porta, la porta di Tim, sta iniziando a scomparire. Svanisce; i bordi diventano indistinti, ma per un lungo momento lei può vedere ancora dall’altra parte, può vedere quella città portuale fredda e puzzolente di pesce, l’imbocco del vicolo, e l’uomo grigio che la fissa. Non accenna neanche a seguirli. Il suo sorriso è mellifluo.

L’immagine si dissolve sempre di più.

Lui alza la mano, e saluta.

La porta scoppia come una bolla di sapone, e Karen corre verso casa.

A quel punto il sogno finì. Karen si svegliò tremando, e guardò la sveglia.

12:45, annunciava il quadro digitale luminoso.

Era la terza notte di fila, ormai. Il sogno non era mai venuto così spesso, o così intensamente. Doveva significare qualcosa, pensò; ma cosa?

No, i sogni non significano nulla.

Allungò le braccia, avvicinandosi alla parte del letto di Gavin. Ma il letto, naturalmente, era vuoto.

Era quasi un mese, ormai, che era vuoto.

Si sentì stupida, e si vergognò di se stessa. Si vergognò di quel desiderio fugace che il suo corpo aveva tradito. Erano tempi duri, pensò, ma la vita andava avanti, e non era certo il momento di perdere la testa. A bassa voce, recitò la filastrocca che si era inventata:

È solo un sogno.

I sogni non significano nulla.

E anche se non è un sogno, è successo tanto tempo fa.

Un quarto all’una, e Michael non era ancora tornato a casa. Lo avrebbe sentito entrare dalla porta; lo sentiva sempre. Be’, ma in fondo era venerdì sera, e non gli aveva dato un orario particolare. In passato non era stato necessario. Mike aveva solo quindici anni, aveva nuovi amici, e solo ultimamente aveva iniziato a mostrare un certo interesse per le ragazze. La sua fioritura era positiva, e Karen l’aveva incoraggiata… era una buona distrazione dal divorzio. Ma ora iniziava a domandarsi se non fosse un po’ eccessiva, come distrazione.

— Preoccupona! — si disse ad alta voce.

Si alzò dal letto e s’infilò la vestaglia.

Tanto di dormire non se ne parlava, almeno finché Mike non tornava. Infilò i piedi nelle pantofole e li posò sul pavimento nudo. Gavin aveva insistito molto per il parquet. Lui era così; tutto falsa austerità e abete lucidato. Karen pensò che forse avrebbe preferito la moquette. Le piaceva quella sensazione sotto ai piedi. Ammorbidiva tutti gli angoli duri… ed era calda.

Nella casa nuova, si disse con fermezza, avremo la moquette. Da una maledettissima parete all’altra.

Il trasloco era inevitabile. Riceveva degli alimenti da Gavin, ma bastavano a malapena a coprire le spese. Comunque fosse andata la causa di divorzio, lei e Michael avrebbero avuto bisogno di una nuova casa. Aveva già iniziato a impacchettare le cose, anche se un po’ a casaccio; la camera da letto era piena di scatole di cartone. Odiava quelle scatole, la loro massa ingombrante lungo la parete, come per angosciarla, per ricordarle come la sua vita poteva spezzarsi così velocemente e completamente.

A pianterreno, si scaldò del latte e si preparò una cioccolata calda. Versò dell’altro latte nel pentolino e lo mise a scaldare; magari Michael ne avrebbe voluta una tazza.

Accese una lampada e il televisore nell’austera sala di pino.

Non c’era un granché alla TV a quell’ora. Il comico David Letterman che opprimeva qualche ospite, e una serie di vecchi telefilm. Si sdraiò sul divano con il telecomando in mano e cercò il canale che trasmetteva un notiziario ventiquattr’ore su ventiquattro.

In Medio Oriente avevano fatto esplodere un autobus, lo sciopero dei servizi civili era alla sua seconda settimana, un uragano minacciava la costa sud-est… in altre parole, tutto procedeva come sempre. Tolse l’audio, ma lasciò l’immagine, il cui bagliore le dava la confortante sensazione di un’altra presenza nella stanza. Diede un’occhiata all’orologio del videoregistratore.

1:05.

Strinse la cintura della vestaglia e prese il suo diario e una penna dal cassetto del tavolo. Da quando Gavin se n’era andato aveva deciso di tenere un diario, una specie di promemoria; così aveva qualcuno a cui parlare, anche se si trattava solo di se stessa.

Ancora il sogno, scrisse.

Mordicchiò il cappuccio già segnato della Bic, e fece una smorfia.

È insignificante, scrisse. O almeno così voglio credere. Ma ricorre troppo spesso.

Sto cercando di pensare a che cosa accadeva realmente in quei giorni. La vecchia casa di Costantinopole. Era il 1959, forse il 1960. Non ho dei ricordi veri e propri, a meno che il sogno non sia un ricordo. Ma ho ben presente la casa. La camera da letto mia e di Laura, quella di Timmy, quella di mamma e papà, con la grossa scrivania di legno e il tappeto afgano di nonna Fauve. Le scale, l’orologio sopra il camino, e il grosso televisore RCA Victor.

Esitò per un attimo, poi continuò: La bambola.

Una memoria, si chiese, o uno strascico del sogno?

— Baby — sussurrò. La bambola si chiamava Baby.

Ricordo papà che guarda Baby. — Dove l’hai presa questa, Karen?

I suoi occhi grandi, e la barbetta rada sulle guance.

— Me l’ha data un uomo — gli dissi.

— Che uomo? Dove?

Non riuscivo mai a mentirgli. Gli raccontai di Timmy, della gola, della porta, della città buia.

Era più arrabbiato di quanto non lo avessi mai visto. Attesi che mi colpisse, ma invece corse nella camera di Timmy.

Timmy urlava…

Si ricordò di come si era accucciata nel suo letto, coccolando Baby. Papà aveva picchiato Tim con la cintura, e Tim aveva urlato. Ma il ricordo era incompleto, nebuloso; più cercava di ricordare, più i ricordi scivolavano via. Al diavolo, pensò.

Non molto tempo dopo avevano traslocato da Costantinopole Street. Da lì erano andati a… ci pensò su… all’appartamento nel West End. Giusto. Poi un anno a Duquesne, e poi un’altra dozzina di luoghi.

— Noi siamo come zingari — le aveva detto una volta sua madre. — Non ci fermiamo mai a lungo in un posto.

Karen mise da parte il diario, depressa come non mai.

1:15, diceva l’orologio.

All’1:23 sentì la chiave che si infilava nella porta d’ingresso. Prese in mano la tazza, cercando di assumere un’aria indifferente. La cioccolata era ormai gelida.

La porta si aprì, e apparve Michael.

— È tardi — disse Karen con tono tranquillo.

— Lo so — Michael si scrollò di dosso il suo giubbotto di pelle consunto, e lo appese. I suoi capelli scuri erano spettinati, e aveva le occhiaie. — Mi spiace, Ma’. Non credevo che saresti rimasta sveglia.

— È solo che non riuscivo a dormire. Vuoi un po’ di cioccolata?

— È meglio che me ne vada a letto.

— Una sola tazza — disse Karen, stupita della disperazione nella sua stessa voce; aveva così tanto bisogno di compagnia? — Ti aiuta a dormire.

Stancamente, suo figlio sorrise. — Va bene. Certo.

Si sedettero in cucina, leggermente a disagio sulle sedie di plastica nera dall’alta spalliera. Da una parete di porte scorrevoli in vetro si scorgeva il buio del giardino. Karen sentì le ombre del suo sogno che si muovevano come una creatura separata dentro di lei. Si alzò in piedi, tirò le tende, e tornò a sedersi, stringendo forte la tazza con entrambe le mani. Le sue dita erano fredde.