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Chiuse gli occhi, e sognò un luogo che non aveva mai visto prima.

Lo vide tutto assieme, da una grande altezza. Un luogo dove città vivacemente colorate si ergevano in mezzo alle pianure, un luogo pieno di spazi selvaggi, bisonti e foreste di sequoie, e città indaffarate dove si dividevano i fiumi. Pensò ai nomi. Vennero alla sua mente spontaneamente, ma con la sensazione di nomi reali, nomi di luoghi: Adirondack, Free New England, le Nazioni delle Pianure. Vide un velivolo dall’aria fragile che attraversava il cielo limpido; l’immagine s’ingrandì, e vide una moltitudine di gente che si muoveva in un mercato affollato, uccelli in gabbia che chiacchieravano, acrobati in una piazza pubblica, un uomo piumato che comprava spezie da una donna con una vestaglia cinese.

Poi girò la testa contro il cuscino, si sforzò di aprire gli occhi e vide solo il profilo scuro del suo attico, con la neve contro la finestra.

La visione era scomparsa.

Dormi, pensò Michael con ardente desiderio. Dormi adesso.

Rimase sdraiato al buio e ascoltò Willis che si aggirava per la casa, chiudendo e controllando le porte, forse versandosi un ultimo bicchiere prima di salire le scale fino al suo lungo sonno senza sogni.

Laura divideva la camera degli ospiti con sua sorella, ma quella sera, in uno dei due letti gemelli, non riusciva a dormire.

Si alzò a sedere, diede un’occhiata alla sagoma immobile di Karen, poi si mise una svestaglia sopra la camicia da notte e si spostò fino alla piccola scrivania in un angolo della stanza.

Era stata la loro scrivania per studiare; sua e di Karen, molti anni prima. Era tipico di sua madre tenerla lì per tutti quegli anni. Laura accese la lampada e sbatté le palpebre davanti al cerchio di luce bianca.

Il piano della scrivania era sgombro.

Frugò nell’ultimo, grosso cassetto, e ne estrasse due oggetti voluminosi. Uno era la scatola da scarpe con le fotografie di mamma. L’altro era un’immensa bibbia di famiglia rilegata in cuoio.

Ci sono verità sepolte, qui, pensò Laura assonnata.

Innanzitutto, esaminò le fotografie. Erano una trentina o una quarantina in tutto. Le mescolò e le aprì a ventaglio come carte, e poi le divise, svogliatamente, in ordine cronologico.

Ce n’era una molto vecchia, un’immagine spettrale di nonna Lucille con una bambina piccola, che doveva essere stata mamma, e due ragazzi più cresciuti, lo zio Duke e lo zio Charlie. Charlie era morto in Corea tutti quegli anni prima, e lo zio Duke era scomparso dopo un matrimonio andato male. Dalla foto, Laura non riuscì a dedurre che quelle persone potessero avere qualcosa di straordinario. Era semplicemente una foto di Lucille Cousins con i suoi tre figli davanti a una ringhiera, alle cascate del Niagara; la data dietro la foto era 1932. Una giornata soleggiata ma ventosa; lo si notava dai capelli di tutti. Sorrisi blandi e soleggiati. Questa gente, pensò Laura, aveva a che fare con l’occulto o il sovrannaturale quanto il bottone di una camicia. Forse era proprio da lei che sua madre aveva tratto la sua visione della normalità perfetta; da sua madre, da quella donna sorridente con il suo sguardo diretto e felice. Nonno Cousins era morto pochi anni dopo aver scattato quella fotografia. Nonna Lucille aveva cominciato a ricevere una pensione statale. E così, quella foto rappresentava l’Eden dal quale era stata espulsa sua madre.

La forza, pensò Laura, quel tratto speciale, doveva provenire da qualche altra parte.

Non aveva mai conosciuto nessuno della famiglia di papà, tranne la nonna Fauve, anch’essa vedova. Laura la ricordava come una donna enorme, ossessionata da un culto fondamentalista per corrispondenza che aveva scoperto via radio attraverso la WWVA di Wheeling. Ricamava piccoli quadri con passaggi strani e spaventosi del Vecchio Testamento; la sua libreria era stracolma di opuscoli e libretti con titoli quali Avvertimento dal Cielo oppure Vivere negli Ultimi Giorni. Laura, da bambina, aveva guardato molto bene sua nonna, fissandola in quei suoi occhi fermi… occhi spaventosi, a modo loro; ma non aveva mai visto la forza in quegli occhi; non aveva mai visto ciò che voleva vedere.

Papà non l’aveva. Mamma non l’aveva.

Allora noi siamo degli errori, pensò. Dei mutanti, dei mostri.

Eppure il potere era una cosa ereditaria… Michael l’aveva dimostrato.

Sfogliò rapidamente le altre fotografie. L’immagine di Tim fermò il suo interesse; Tim che cresceva in quelle foto come in un film muto. Aveva un’aria meno aggressiva di quella che ricordava. Ricordò come Tim faceva il bullo con le sue sorelle, anche sei era più giovane… c’era qualcosa nella sua voce, nel suo portamento; o forse era solo la cocciuta volontà di fare ciò che non doveva, di infrangere non una sola regola, ma tutte le regole. Tuttavia, nelle fotografie non era altro che un bambino. Il suo viso paffuto non sembrava spaventoso, ma spaventato; un bambino spaventato.

Vi erano poche foto di Tim adolescente, ma almeno da queste riusciva a percepire un po’ della solennità che covava in lui. Portava un giubbotto di pelle che neanche le minacce di Willis erano riuscite a strappargli di dosso. Laura sorrise e pensò; un giubbotto vaffanculo. Tim fissava la macchina fotografica con il mento sollevato e le labbra tese in una espressione arcigna. I suoi occhi stretti erano fissi.

Laura osservò l’immagine del fratello scomparso e pensò: quanto ne sai tu?

In lui, il potere era estremamente forte. Aveva continuato a esercitarlo anche dopo che Willis aveva iniziato a picchiarlo; anche se lo faceva in privato, con grande cautela. Laura si ricordava il modo in cui Tim se ne andava su per le colline, o lungo qualche strada solitaria. Lei sospettava che praticasse il suo talento nascosto proprio lì, ma non gliel’aveva mai chiesto. Lei non era mai stata una brava bambina come sua sorella maggiore, ma aveva sempre avuto un po’ di paura del suo potere, delle cose che avrebbe potuto vedere o evocare. Karen credeva in quello che le diceva Willis; Laura no, ma era piuttosto cauta; Tim…

Tim, pensò, ci odiava tutti.

Mise via le fotografie, e ripose nuovamente la scatola.

Aprì la bibbia. Era una bibbia di famiglia molto vecchia, e le ultime pagine erano divise in tre colonne, NASCITE, MATRIMONI, DECESSI. La bibbia era stata di nonna Lucille e le pagine erano piene dell’inchiostro di china della sua scrittura svolazzante. Che a un certo punto veniva sostituita da quella normalissima a biro di sua madre.

Laura si piegò sulle fragili pagine con il loro vago odore di polvere e di papiro. Nascite dall’inizio del secolo. Trovò mamma accanto a Duke e Charlie. Trovò sua cugina Mary Ellen, che era figlia di Duke e di una donna di nome Barbara, prima che Duke scappasse via. Vi erano anche dei rami misteriosi della famiglia, gente che non aveva mai conosciuto, nomi che non riusciva a ricordare.

Cercò il suo nome, o quello di Karen e Tim.

Ma quei nomi non c’erano.

Il matrimonio di Karen era stato registrato; A Gavin White, Toronto, Canada, 1970, ma non la sua nascita. Nessuno di loro appariva nel registro delle nascite.

Improvvisamente, Laura si sentì persa, senza fiato. Si sentì leggera come se avesse potuto galleggiare fuori dalla finestra, fino al cielo. Non siamo nati, pensò. E allora come facciamo ad esistere? Pensò alle favole che leggeva nel suo grande libro illustrate da bambina. Noi siamo dei trovatelli, pensò. Ci hanno lasciati i folletti. Si ricordò dei folletti delle illustrazioni. Visi nodosi e teste enormi, con nasi aguzzi e occhi luccicanti e sinistri. I folletti ci hanno lasciati qui, pensò, e ora i folletti ci rivogliono indietro.

Fu percorsa da un brivido, e si strinse la vestaglia attorno alla vita. Chiuse la bibbia, e la rimise nell’ultimo cassetto sotto alla scatola di fotografie. Stava per chiudere il cassetto quando notò qualcosa sul fondo, un ammasso di forme leggermente familiari, grigie e coperte di polvere.