Aprì il cassetto il massimo possibile, e frugò in fondo.
Tre oggetti. Li tirò fuori, sotto il cerchio di luce.
Un fermacarte, sbiadito e opaco.
Una piccola, patetica, semplice bambolina.
E uno specchietto economico in plastica rosa.
Mi ricordo, pensò in preda all’eccitazione, mi ricordo!
Tolse con il pollice lo strato di polvere dallo specchietto e si guardò. Il vecchio vetro era piegato e scheggiato. Come aveva amato quel vecchio oggetto… La più bella del reame. Chi l’aveva detto? Un altro ricordo dalle fiabe, pensò, un altro ricordo dai libri illustrati. Ripeté le parole a se stessa, a bassa voce: la più bella del reame.
Ahh… ma non lo sono.
I suoi stessi occhi la fissarono tristemente dalle profondità nascoste dello specchio.
La verità era che lei era invecchiata in quel tranquillo paesino della California. Era invecchiata quasi senza accorgersene, misteriosamente, e senza sforzo. Una volta ero bellissima, pensò. Ero bellissima ed ero giovane, e maledizione, volevo cambiare il mondo, o almeno trovarne uno migliore. Era stata presa da quell’esplosione breve e rovente di idealismo berkeleyano… tutte quelle cose che intendeva la gente quando parlava con nostalgia degli anni sessanta. Bruciava come un fuoco dentro di lei, e lei l’avrebbe seguito al di là delle barriere del mondo, e non l’avrebbe mai, mai lasciata.
Ma ora sono vecchia, pensò, e ho passato vent’anni a guardare le onde che vanno e vengono. Vent’anni di tè alla rosa, di poesia e di nebbia invernale; vent’anni dell’amore facile e occasionale di Emmett. Vent’anni di equilibrio stonato, si disse, e questo ritorno a casa non mi farà di certo ringiovanire.
Lo specchio la fece sentire molto triste. Ma quegli oggetti, quei giocattoli, erano pieni di significato. Non riusciva a ricordare esattamente la loro provenienza, ma procuravano una sensazione magica. La mattina li avrebbe mostrati a Karen.
Nel frattempo, li nascose di nuovo in fondo al cassetto, spense la luce, e andò a letto. Nel buio, poté sentire la neve che picchiettava contro la finestra, muovendosi come sabbia in una clessidra. Vent’anni, pensò. Vent’anni, mio Dio! Guardò la pallida luminescenza della luna finché non iniziò a svanire; poi si sfiorò il viso con una mano, e si rese conto, con stupore, che stava piangendo.
Quella lunga notte non era ancora finita quando Michael si svegliò, solo, nella vastità del grande letto del piano di sopra.
Prese il suo orologio dal comodino e lo guardò alla luce flebile di un lampione che penetrava dalle finestre polverose.
Le quattro del mattino. E si sentiva completamente e disperatamente sveglio, come fosse stato mezzogiorno.
Sospirò, si alzò in piedi, si mise le mutande e i Levi’s. Rimase in piedi per un po’ davanti alla finestra.
Basta neve, per quella notte. Si intravedevano delle stelle oltre i margini delle nubi che svanivano, sopra i vecchi lampioni nei vicoli e le finestre chiuse di quello squallido paese di carbonari. Il suo fiato creava isole di vapore sul vetro. La visione di un mondo migliore si era totalmente dissipata. Non riusciva neanche a ricordarne la sensazione. Non c’era magia in quel posto, pensò Michael, c’erano solo quelle strade vuote e fredde. Rabbrividì.
Voleva andare a casa.
Il guaio di svegliarsi alle quattro del mattino, pensò, è che ti sentì come un bambino. Vulnerabile. Come se potessi scoppiare a piangere da un momento all’altro.
Cerano cose che non si era permesso di pensare fino a quel momento; che era stanco di essere inseguito, che era stanco di avere paura, che era stanco di dormire in strani letti in case che non erano sue.
Ma questi erano pensieri che poteva avere uno di dieci anni, e Michael si ricordò con fermezza che lui non aveva più dieci anni… solo che a volte si sentiva così.
— Merda — esclamò ad alta voce.
Scese a piedi nudi per le scale, oltrepassò le altre camere da letto, e arrivò al pianterreno. Accese la luce della cucina e si versò un bicchiere di latte. Le piastrelle del pavimento erano fredde.
Spinto da un impulso, tirò fuori il portafoglio dalla tasca destra dei suoi jeans.
Aprì la bustina delle carte di credito.
Era ancora lì… il numero che aveva copiato dall’agenda di sua madre, il numero di telefono di suo padre a Toronto. Uno scarabocchio frettoloso su un foglietto verde consumato.
C’era un telefono in cucina; un vecchio telefono nero sulla mensola accanto ai libri di cucina.
Michael guardò il foglietto e pensò, ma perché? Fare una chiamata interurbana, svegliarlo alle quattro del mattino — o svegliare la sua donna, per l’amor di Dio… — per poi dirgli che cosa? Ciao, pa’. Ho passato un paio di settimane in California. Be ’, una specie di California. Ho visto i funerali di Kenned alla tele, avresti dovuto esserci.
Giusto.
Ma il bambino di dieci anni dentro di lui insisteva. Casa.
Balle. Non c’era nessuna casa laggiù. Solo un appartamento vuoto, e suo padre che viveva in qualche posto che lui non aveva mai visto con una donna che lui non aveva mai conosciuto. Non è vero, disse il decenne. Tu puoi tornare. Tu puoi far sì che vada ancora bene come prima.
Balle, pensò Michael. Balle, balle, balle. Quando mai era andata tanto bene?
Mai tanto bene.
Ma anche non volendolo, stava formando il numero. Mezzo nudo in piedi in quella cucina, ascoltava il ticchettio delle linee interurbane… poi il debole segnale, come in sordina.
— Pronto? — la voce di suo padre; stanca e scocciata.
Michael aprì la bocca ma solo per scoprire che non aveva parole.
— Pronto? Ma che cos’è, uno scherzo?
Riattaccherà, pensò Michael. E forse sarà meglio così.
Ma invece sussurrò: — Papà?
Un lungo silenzio serpeggiò lungo le linee del Canada. — Michael? Sei tu?
Michael provò un attimo di panico completo e senza fondo; non c’era nulla da dire. Nulla che gli potesse dire.
— Ehi, Michael, sono contento che tu abbia chiamato. Ho passato dei brutti momenti, siamo stati in pena per te.
Michael interpretò quel “siamo” come una nota molto amara.
— Michael, ci sei?
— Sì — ammise.
— Dimmi da dove stai chiamando.
No, pensò Michael… sarebbe un errore.
— Be’ — disse suo padre. — Stai bene almeno? E tua madre sta bene?
— Sì, stiamo bene. Tutto bene.
— Ti ha dato almeno una giustificazione per trascinarti in giro a quel modo? Perché sai, dal mio punto di vista il suo componamento è molto strano.
Non sai neanche la metà di quello che è successo, pensò Michael. — Ho chiamato solo per sentire la tua voce — disse.
Ho chiamato perché voglio andare a casa. Voglio che ci sia una casa.
— Mi fa piacere. Ascolta, io capisco che tutto questo deve essere molto difficile da capire per te. Forse non ne abbiamo parlato abbastanza, noi due. E forse tu me ne fai una colpa. Per il divorzio e tutto il resto. Be’, mi sembra abbastanza giusto. Forse io mi merito una parte di quella colpa. Ma devi vederla anche dal mio punto di vista.
— Certo — disse Michael. Ma non era questo che voleva sentire. Quello che voleva sentire era tornate a casa, tu e tua madre, è tutto a posto, è tutto come prima. Un po’ di sicurezza per il bambino dentro di lui. Ma naturalmente era impossibile. Il divorzio non se ne sarebbe andato. L’Uomo Grigio non se ne sarebbe andato.
— Dimmi dove sei — insistette suo padre. — Diavolo, posso venire a prenderti.
Improvvisamente, il bambino di dieci anni si svegliò. Sì! Vienimi a prendere! Portami a casa! Dammi la sicurezza! — Papà… — disse.