— Ma lui ci trovava sempre.
— Prima o poi.
— Avresti dovuto dircelo, prima che ce ne andassimo di casa — disse Karen.
— Io ho sempre pensato… sembrava che desse la caccia a Timmy. E a volte pensavo che era Tim che lo faceva venire. Lui non aveva paura di quell’uomo. Non so bene quello che accadeva… forse Tim aveva qualche genere di rapporto con lui. — Spense il mozzicone della sigaretta con la suola della scarpa. — Per anni ho creduto che quell’uomo fosse il Diavolo.
Karen capì che questo era senz’altro vero. Suo padre proveniva da una tradizione di fondamentalismo del genere capelli corti/camicia, ed era più che possibile che credesse in un diavolo con un vecchio cappello grigio. E considerando quanto aveva visto, non era poi un’idea così assurda.
— E lo credi ancora, questo? — chiese lei.
— Non so più che cosa credere.
Guardò suo padre mentre gettava uno sguardo cupo fuori dalla finestra. La luminosità pomeridiana era svanita. L’aria che entrava nella stanza era gelata. Guardandolo mentre fissava il radunarsi dell’oscurità, Karen disse: — Tu volevi che noi avessimo paura.
— Sì — rispose Willis con voce piatta.
— Perché tu avevi paura.
Ma lui non rispose.
17
Il giorno prima che partissero, Jeanne Fauve prese da parte sua figlia Laura e le sussurrò in un orecchio: — E adesso dove andrete?
Erano in piedi in salotto con il tappeto persiano consumato e l’incessante ticchettio dell’orologio sul caminetto. L’aria era secca e ferma. La stufa ronzava. Al piano di sopra, Michael e Karen stavano facendo le valigie.
— Non lo so — disse Laura. — Forse a Burleigh, per vedere che cosa riusciamo a scoprire.
— Io credo — disse sua madre — che se siete determinate ad andare a fondo, dovreste parlare a Tim.
— Sai dove si trova? — chiese Laura.
— Non proprio. Ma abbiamo ricevuto questa a Natale… forse vi può essere utile?
Jeanne estrasse la cartolina dalla tasca del suo grembiule trapuntato. Non era una cartolina natalizia, ma una normale cartolina illustrata, con una foto del Golden Gate Bridge visto dall’alto e gli edifici bianchi sulle colline più in là, come nel sogno di una città di qualche pittore.
Era l’unica notizia che aveva ricevuto da suo figlio negli ultimi dieci anni.
Laura la prese. La girò, e lesse il messaggio. Diceva solo Buon Natale, ma lei riconobbe, dopo tutti quegli anni, la calligrafia di Tim. Il messaggio era misterioso; non vi si leggeva né ironia né sincerità.
Ma c’era anche un indirizzo del mittente, oscuro e scritto in piccolo in cima alla cartolina. Qualche posto a San Francisco.
Laura alzò lo sguardo con aria cupa.
— Grazie — disse.
— State attente — disse sua madre.
Quell’ultima notte nella casa di Polger Valley, Karen rimase sveglia e scrisse il suo diario.
Folata di vento alla finestra, scricchiolio della penna sul foglio.
Penso a papà, scrisse.
La penna si fermò sulla pagina.
Scrisse: Lo porto dentro di me, e l’ho portato dentro di me per più tempo di quanto non immaginassi.
Lui è in buona fede, scrisse.
Ma poi cancellò tutto.
Scrisse: Noi crediamo di vivere in un luogo, o di conoscere una persona, o di avere un genitore, ma non è vero. Noi siamo queste cose. Sono loro che ci costruiscono. Noi siamo fatti di queste cose.
Io sono fatta di Willis, scrisse Karen. Lo vedo nello specchio più spesso di quanto non lo desideri. Sento la sua voce nella mia.
Si rese conto che le tremava la mano.
Scrisse, calcando forte la punta della biro: Penso anche a Michael.
Michael è fatto di me.
E in questa faccenda pericolosa che abbiamo intrapreso… caro Dio, scrisse, Non so se questo gli basterà.
Chiuse il diario, e stava per spegnere la piccola lampada della scrivania quando sentì la voce di Laura: — Aspetta.
Karen si voltò di scatto. — Mi hai fatto prendere uno spavento… non sapevo che eri sveglia.
— Non volevo interromperti.
Erano sole nella stanza, con la neve di mezzanotte ammassata sul davanzale e il leggero e distante ronzio della stufa. Karen portava una vestaglia trapuntata sopra la camicia da notte; Laura era infilata sotto le coperte.
— Che visita è stata — disse Laura.
Karen sorrise. — Un inferno di visita.
— Trovatelli — disse Laura.
— Zingari — disse Karen.
— Siamo noi. — Laura si alzò a sedere, stringendosi le ginocchia. — Hai guardato nell’ultimo cassetto?
Karen fece una smorfia. Non le erano mai piaciute tanto le sorprese. Ed era stanca. Ma aprì il grosso cassetto lentamente.
— Oh — disse. — Oh, mio Dio.
— Anche tu te li ricordi?
Karen prese la bambolina rosa e carnosa. Era piccola. Era nuda. La polvere aveva iniziato a infiltrarsi nei pori della plastica.
— Baby — disse. Guardò Laura con aria assorta. — Non era un sogno.
— Niente di tutto questo è mai stato un sogno. È questa la parte che spaventa, non è vero?
Karen le raccontò il sogno che l’aveva periodicamente visitata per quasi tutta la sua vita; la casa di Costantinopole e la porta aperta da Tim in quella fredda città industriale. Laura annuì. — È più o meno come me la ricordo io. Tim era sempre l’esploratore. Forse lo è ancora.
Karen rimise la bambola dove l’aveva trovata. C’era un che di spiacevole nella sensazione tattile della plastica. — Credi che riusciremo a trovarlo?
— Credo che dovremmo provarci.
— Credi che ci odi ancora?
— Credi che ci abbia mai veramente odiati?
— Non lo so — disse Karen. La domanda la preoccupava. — È passato tanto tempo…
Sbadigliò, pur non volendolo. — Ehi, ho sonno anch’io — disse Laura. — È ora dormire. Ci aspetta un lungo viaggio domani mattina.
Ma lasciarono la luce accesa per tutta la notte.
Willis aiutò Karen a portare l’ultima valigia alla macchina.
Jeanne li guardò dalla veranda, avvolta in un pesante cappotto di panno. Era una giornata fredda ma limpida; il cielo era di un profondo azzurro invernale. Si erano già salutati. Michael e Laura erano barricati in macchina, e il motore girava impazientemente.
Willis esitò un attimo prima di chiudere il portabagagli. I suoi occhi erano imperscrutabili, sotto le lenti bifocali.
Appoggiò una mano sulla spalla di Karen. — Capisci perché l’ho fatto?
Lei seppe subito che cosa intendeva con questo. La paura, pensò, quel mutismo prolungato… e le botte.
Annuì, a disagio.
— Ma questo non vale proprio un cazzo, giusto? — disse Willis. — Capire non migliora niente, giusto?
Lei lo fissò, con il suo giubbotto invernale a quadrettoni, il suo cappello da cacciatore, i capelli grigi tagliati a spazzola o le guance con la barbetta rada.
— No — disse tristemente. — Non cambia niente.
— Ti auguro buona fortuna — disse Willis.
— Grazie — rispose lei.
— Se potessi aiutarvi… — Ma non si muoveva. Stava lì in piedi, rigido. Le sue mani erano flosce e immobili.
Karen salì sul sedile davanti accanto a Laura, chiuse il finestrino, e non guardò indietro. Non voleva che papà la vedesse, perché stava piangendo. Come era successo? E che senso aveva?