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Michael aveva appoggiato i piedi su un’altra sedia. Era un bel ragazzo, pensò Karen; una bellezza fragile. I capelli scuri lo facevano sembrare più pallido; era magro, e sembrava più giovane della sua età. L’attrezzatura, da “duro” (giubbotto, magliettina stretta e jeans sbiaditi) non gli si addiceva affatto.

Karen si schiarì la gola. — Sei stato al cinema?

Michael annuì.

— Con Amy?

— Sì. Dan e Val ci hanno dato un passaggio in centro.

— Com’era il film?

— Bo, non era male. Sai, del genere inseguimenti in automobile — fece un sorriso forzato. — Boom. Crash.

— Non sembrerebbe un granché. — Tirò a indovinare: — Hai dei problemi con Amy?

— No, con Amy va tutto bene.

— È che mi sembri un po’ giù, tutto qua.

— Non per via di Amy.

— Per cosa, allora?

Dall’altra parte del tavolo, Michael la fissò. Era il suo sguardo serio. — Vuoi saperlo?

— Se me lo vuoi dire.

Appoggiò la schiena e si infilò le mani nelle tasche. — Ho visto ancora quel tipo.

Le parole caddero come pietre nell’aria ferma della cucina. Il frigorifero si zittì con un sussulto. Fuori, cantavano i grilli.

Era settembre ormai, e l’autunno si avvicinava.

— Stavamo tornando a casa in macchina — iniziò Mike con tono piatto — quando abbiamo svoltato su via Spadina, lui era lì, in piedi, davanti a un ristorante cinese. Il ristorante era chiuso, ed era un punto buio. Lui stava lì, in piedi. Come se stesse aspettando, capisci? E poi mi ha visto. Eravamo in quattro in macchina, ma lui guardava solo me — spostò la tazza della cioccolata, e appoggiò le mani sul tavolo. — Mi ha salutato.

Karen non voleva chiederlo, ma la domanda era come un impulso automatico. — Chi? Chi ti ha salutato?

Michael fissò lo sguardo nell’oscurità. — Lo sai, mamma.

L’Uomo Grigio.

2

Quella mattina, Michael non fece colazione.

— Dritto a scuola — gli aveva detto Karen. — E poi dritto a casa. D’accordo? Non voglio stare a preoccuparmi per te.

— Dritto a casa — le aveva risposto Michael, casualmente, ma con una certa serietà sotto sotto che forse nascondeva anche un po’ di paura.

Ma era una buona cosa, no?

Almeno sarebbe stato più attento.

Karen rimase alla finestra con la tenda aperta a guardare suo figlio che camminava lungo quella strada deserta di periferia finché non lo perse di vista, all’incrocio fra Forsythe e Webster, dove l’acero dei McBrides stava perdendo le prime foglie.

Il postino infilò una lettera nella fessura della porta. Era di Laura.

Karen se la portò in centro, sul sedile anteriore della sua piccola Honda Civic, fino al ristorante dove doveva incontrarsi con Gavin. Quando si rese conto che, come prevedibile, Gavin era in ritardo, tirò fuori la lettera dalla borsa e se la rigirò fra le mani un paio di volte. La busta era di una specie di carta spessa e simile a stoffa, come una pergamena; Pindirizzo del mittente era a una casella postale di Santa Monica, in California.

California. Le piaceva come parola. Irradiava calore, sicurezza e sole. Lì in quel ristorante di Toronto erano vestiti tutti in grigio autunnale o marrone autunnale; gente elegante del centro, sparpagliata come foglie fra quegli specchi e quelle mattonelle. Ogni volta che si apriva la porta, l’aria gelida le pungeva le braccia.

Aprì la busta lentamente, con un movimento esitante che era allo stesso tempo impaziente e riluttante.

“Cara Karen”, iniziava la lettera.

Occhielli ampi e inchiostro scuro. Mentre leggeva, le parole presero il contralto ruvido della voce di Laura.

Ho ricevuto la tua lettera e ci ho rimuginato sopra. So che non sono affari miei, ma dato che me lo chiedi, eccoti alcuni miei pensieri.

Innanzitutto, mi dispiace veramente per te e Gavin. Non so se ti sarà di consolazione, ma io penso che hai ragione al cento per cento (anche se, come mi hai detto, il divorzio non è stata un’idea tua.) Noi zingari non siamo tagliati per la vita da piccoli borghesi.

Mi rendo conto che deve essere stato un colpo per te. E poi, naturalmente, c’è Michael. Quindici anni… Mio Dio, ma come è mai possibile? Mi piacerebbe molto incontrare il mio unico nipote. È così carino come in fotografia? (Non dirgli che ho detto così.) Lo dò per scontato. È un rubacuori. Si sta adattando?

Io sono convinta che dovremmo essere più che parenti da cartolina natalizia. Sarebbe bello potervi vedere ancora entrambi.

Sì, sorellona. È un’allusione.

Ascoltami, Karen; alla radio suonano vecchie canzoni, e mi vieni in mente tu. “Getta il tuo destino al vento”: ti ricordi? Come consiglio, è meglio di quello che ti immagini.

Sto parlando sul serio. Alla zia Laura farebbe piacere la vostra compagnia.

Vi posso ospitare per una settimana, per un mese, o per tutto il tempo che volete. Con preavviso o senza.

Se non puoi dire sì, di’ almeno forse. Chiedi, e ti darò le indicazioni, ma RSVP.

Era firmata con il corsivo esagerato e inconfondibile di Laura. Nonostante la sua apprensione, leggendola riuscì a sorridere.

P. S., era scritto sotto l’ultima piega della lettera.

L’epoca dei miracoli non è ancora finita.

Il suo sorriso svanì. Alzò lo sguardo, e vide Gavin in piedi dall’altra parte del tavolo. Gavin la fissò per un attimo con aria altezzosa e poi disse: — Hai un’aspetto veramente schifoso.

Karen sospirò. A quanto pareva, in quei giorni gli piaceva esordire in quel modo. — Be’ — disse — tu invece no. Hai un aspetto impeccabile. — Ed era vero.

Gavin si preoccupava molto del modo di vestire. Leggeva con attenzione le pagine della moda su Esquire con la stessa solennità con la quale un generale pianifica una campagna militare. Era alto, e aveva un bel fisico, che aveva sviluppato alla palestra dirimpetto al suo ufficio. Odorava di deodorante Brut. — A parte gli scherzi — disse, sedendosi e guardandola negli occhi. — Stai dormendo bene? Hai l’aria stanca.

— Be’, lo sono… diavolo, sì, sono stanca.

— Non volevo offenderti.

— No — disse. — Lo so. — Era solo quel suo modo di parlare… truce, pensò con disperazione. Ma la cosa importante, ora, era che Michael era in pericolo. — Siamo qui per parlare.

Per parlare. Sembrava un’idea così infausta, che invece ordinarono il pranzo. Erano in un ristorante che conosceva Gavin, vicino al suo ufficio. Lui si trovava nel suo elemento. Ordinò un’insalata di mare e una birra leggera. Karen prese un piatto di formaggio magro e della frutta. Gavin parlò un po’ del suo lavoro, e Karen gli raccontò come stava andando Michael a scuola. Stavano parlando, pensò Karen, e questo era già un buon inizio, ma non parlando veramente; non menzionò neanche l’Uomo Grigio.

Una volta, parlare con Gavin era facile per lei. Si erano incontrati all’università di Penn State, dove Karen era un anno indietro nel corso di lettere. Gavin era un giovanotto insoddisfatto; non un ribelle accidentale come andava di moda a quei tempi, ma solo un ragazzo alla ricerca di un modo per dare significato alla sua vita. Era canadese,e aveva deciso di tornare a casa finita la scuola, e di studiare legge. La legge, diceva, era un modo per entrare nelle vite della gente. Era lì che si poteva esercitare un certo potere, che si poteva creare la differenza, cambiare le cose in meglio. Vogliamo tutti cambiare il mondo, pensava Karen, ricordandosi il ritornello della canzone dei Beatles che ora veniva usata come pubblicità per le scarpe Nike. Forse la Nike era uno dei clienti di Gavin.