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Chiamò Toronto.

Era il numero che le aveva lasciato Gavin tutti quei mesi prima. Se risponde lei, si disse riattacco. Ma forse sarebbe venuto Gavin. Tre ore di differenza, pensò. A casa era ora di cena. Forse Gavin stava mangiando nell’appartamento con vista sul lago della sua ragazza. Forse nevicava. Forse avevano le tende aperte, e guardavano la neve che cadeva nell’oscurità dell’acqua.

Aspettò fino al quarto squillo, poi al quinto, e poi ebbe l’impulso di riattaccare, di riattaccare subito, ma invece udì un ticchettio lontano, e infine la voce di Gavin: — Pronto?

— Ciao — disse, con un filo di voce. — Sono io.

— Cristo, Karen… dove sei?

— Abbastanza lontana — ma questo era stupido. — Negli Stati Uniti — aggiunse. Non voleva che lo sapesse con precisione.

— E che diavolo ci fai laggiù?

— Abbiamo dovuto andarcene.

— Michael è con te?

— Certo che è con me… sicuro che lo è.

— Lo sai che hai lasciato un bel casino qui, vero? Ho fatto denuncia alla polizia. Ho dovuto lasciarli entrare in casa. Era strano. Tutte quelle scatole di cartone accatastate. Era come la Mary Celeste. E la scuola mi ha chiamato per Michael. Lo stai facendo andare a scuola, almeno?

— Michael sta bene — disse in tono difensivo.

— Hai per caso una spiegazione razionale per tutto questo?

Nessuna che saresti in grado, di capire, pensò Karen. — Non proprio — rispose.

— Hai avuto una specie di esaurimento, è così? Hai preso Michael, e te ne sei semplicemente andata? Così semplicemente?

— Così semplicemente — rispose lei.

— Capisci che non sembra una cosa tanto giusta. Potrebbe andare a tuo sfavore quando si parlerà dell’affidamento.

Dapprima non capì. L’affidamento di che cosa?

Poi le venne in mente. — Gavin, ma è pazzesco!

— Ovviamente non ho spinto su questo. Voglio dire, sono io quello che se n’è andato. Lo ammetto. Ma ne ho parlato con Diane, e a noi sembra che Michael abbia bisogno di una situazione famigliare più stabile.

— Stabile?

— Piuttosto che essere tirato fuori dalla scuola e farsi trascinare in giro per tutto il Paese. — E poi con tono petulante — Non lo vedo da mesi, sai? Forse tu pensi che non sia importante per me. Ma non dimenticare che io sono suo padre.

Karen si sentì raggelare. Si domandò perché avesse chiamato. Le era venuto in mente che forse Gavin era preoccupato. Voleva rassicurarlo.

— Dimmi dove sei — disse Gavin. — O meglio, dimmi quando tornate a casa.

— Non puoi fare così — disse Karen. — Non puoi semplicemente darmi degli ordini.

— Ma non è questo il problema, vero? È Michael il problema.

— Non puoi prendermelo.

— Intendo il suo benessere. La sua scuola. La sua salute. Dovrò dire alla polizia che hai chiamato.

— Michael sta bene!

Ma mentre lo diceva, sembrò una menzogna.

— Non è a me che fai del male, sai — disse Gavin. — È a lui che lo fai.

— Lui sta bene.

— Voglio solo un indirizzo. Anche un numero di telefono. Michael è lì? Fammi parlare con lui. Io…

Karen sbatté giù il ricevitore.

Dopo cena, Laura e Michael camminarono per un paio di isolati lungo Market Street. Era tardi, e quello non era il migliore dei quartieri, ma la strada era piena di gente. Un uomo di mezza età con dei baffi alla Salvador Dalì chiese loro se avevano degli spiccioli. Laura gli diede una moneta da un quarto di dollaro. — Che Dio vi benedica — disse l’uomo con aria felice. Le fece venire in mente l’Haight, i suoi giorni di Berkeley. Quanto aveva perso da allora… lentamente, senza accorgersene.

Quando tornarono in albergo, Karen dormiva. — Vai pure in bagno — disse Laura al nipote. — Io farò l’ultimo turno.

Dieci minuti dopo, il bagno era suo. Fece una doccia volutamente lunga, con l’acqua al massimo del calore che poteva sopportare; si lavò anche i capelli, e si frizionò con un asciugamano mentre il vapore svaniva dagli specchi.

La luce del bagno era una fluorescenza spietata e fredda, e gli specchi erano dappertutto.

Vecchia, pensò Laura.

Guarda quella donna nello specchio, pensò. Quella donna crede di essere giovane. Si muove come si muoveva quando aveva vent’anni. Crede di essere giovane, e crede di essere carina.

Ma sta ingannando sé stessa su entrambi i punti.

Boh, pensò Laura. È solo che sono un po’ depressa, un po’ stanca di guidare, e un po’ spaventata. Ehi, pensò, basta stringere gli occhi e far scomparire le rughe.

Le rughe, le piaghe, le smagliature.

Troppo tardi, pensò. Troppo tardi, troppo tardi, troppo tardi… ormai sei vecchia.

La più bella del reame.

Difficilmente.

Troppo tardi per l’amore, e troppo tardi per dei bambini. Era rimasta troppo tempo a giocare, e ora tutti i buoni programmi alla TV erano finiti, e le luci stavano per spegnersi.

Piagnucolona, pensò. Dovresti vergognarti.

Be’, si vergognava.

A letto, si disse. A dormire. Ognuno ha bisogno del suo sonno per mantenersi bello.

Attraversò lentamente il tappeto di felpa dell’albergo, ascoltando lo scricchiolio delle sue stesse fragili ossa nell’oscurità silenziosa.

Il mattino dopo controllarono l’elenco telefonico, ma non c’era nessun Timothy Fauve residente nella zona della Baia.

— Non significa niente — disse Laura. — Magari sta usando un nome diverso, o qualsiasi altra cosa.

Però, pensò Karen, non era certo di buon auspicio.

Dopo aver fatto colazione, guidarono fino all’indirizzo della cartolina che Tim aveva spedito a casa.

Corrispondeva a un albergo nel Mission District. Era una pensione, e non certo il genere di posto al quale era abituata Karen; un albergo derelitto, con degli uomini chiaramente senza fissa dimora stravaccati sul marciapiede davanti. Si chiamava Gravenhurst, e il nome era inciso su un vecchio cartello coperto di ruggine. Karen lo guardò costernata. Non era certo il genere di posto dove si sarebbe immaginata di andare.

Ma seguì Laura su per i tre scalini di cemento consunto, con Michael alle spalle.

L’ingresso era buio e puzzava leggermente di muffa e di luppolo. Sulla destra c’era una stanza con il bar, e alla sinistra una scrivania. Laura vi si diresse e chiese di Timothy Fauve. L’uomo dietro la scrivania era esageratamente obeso, e sembrava avere gli occhi sbarrati. Alzò lo sguardo verso Laura, e disse che non aveva mai sentito quel nome. — Era qui a Natale l’anno scorso — disse Laura.

— C’è un sacco di gente che passa di qua.

— Non potrebbe dare un’occhiata?

L’uomo si limitò a fissarla.

Laura aprì la borsa ed estrasse una banconota da venti dollari. — Per favore — disse.

Karen era stupita. Lei non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Non le sarebbe mai venuto in mente.

L’uomo sospirò e iniziò a sfogliare un enorme e antichissimo registro. Infine disse: — Fauve, stanza 215. Ma se n’è andato da mesi.

— Se lo ricorda? — chiese Laura.

— Cosa c’è da ricordare? Era un tipo tranquillo. Andava e veniva.

— Non gli ha mai parlato?

— Io non parlo.

Laura sembrò esitare un attimo. — È vuota adesso, quella stanza?

— Al momento — disse l’uomo — la stanza non è occupata.