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La cosa più strana era che l’edificio non era affatto protetto.

Sembrava una fortezza, con cancelli di ferro e posti di guardia, ma il cancello era aperto e il vasto cortile deserto. Michael si incamminò istintivamente sotto la neve che cadeva, rabbrividendo per il freddo, la sua ombra moltiplicata dal bagliore delle lampade al sodio. Si fermò un attimo e si guardò alle spalle, verso l’ingresso. L’automobile che l’aveva portato fin lì era ancora ferma, parcheggiata, con il motore spento. Pensò che fosse una cosa un po’ strana, ma non importava. Si diresse con decisione verso l’edificio principale; un’enorme lastra di pietra e di mattoni con occasionali finestre sbarrate. Veli e drappi di neve cadevano tutt’attorno a lui. Era come essere contenuto nella neve, avvolto dalla neve. Non aveva più tanto freddo, ora.

L’istinto, o forse meglio la costrizione che provava, era diventata fortissima. Si fece guidare fino alla porta centrale d’acciaio dell’edificio, che era socchiusa. E anche quello era un fatto strano. Ma lui non ci pensò. Un refolo di vento gli fece entrare della neve nel colletto, spingendolo in avanti come una mano. Dentro, sembrava dirgli. Va bene, pensò Michael, è lì che sto andando. È lì che voglio andare.

Entrò nell’edificio.

Il corridoio era deserto. Metà delle lampade fluorescenti sul soffitto erano spente o traballavano, e un poco di neve si era accumulata all’interno, sulla soglia. Michael chiuse la porta alle sue spalle; il rumore riecheggiò nel corridoio come un batter di mani.

Che cosa è questo posto?

Casa, pensò. La parola era lì, nella sua mente. Ma non era proprio un suo pensiero; era il pensiero di Tim. La voce di Tim. O quella di Camminatore.

Scosse il capo e procedette lungo il corridoio.

Il corridoio puzzava di disinfettante e di nastro isolante bruciacchiato. Alcune porte erano aperte, altre no; da quelle aperte si potevano scorgere uffici bui, senza finestre, con scrivanie grigie di metallo. Ogni tanto, il corridoio svoltava a sinistra o a destra, o si diramava in due o tre direzioni diverse. Non c’erano numeri né cartelli. Michael continuò a camminare senza farci caso, seguendo l’imperativo dentro di sé, e avvicinandosi sempre più al cuore dell’edificio (come se quel palazzo avesse effettivamente avuto un tiepido cuore che batteva) e a qualunque cosa lo attendesse lì.

Gli venne in mente che avrebbe dovuto essere spaventato.

Sui suoi abiti la neve si era sciolta. Sentiva i capelli freddi e bagnati sul collo, e i piedi intirizziti. A ogni passo, le sue scarpe da ginnastica facevano un suono di gomma umida e appiccicosa. Dovrei avere paura, pensò, perché niente di tutte questo è come dovrebbe essere. C’era qualcosa di ovviamente sbagliato, e lui ne era al centro; quell’edificio vuoto esisteva, in un certo senso, unicamente a suo beneficio.

Ma non poteva neanche immaginare di fermarsi o di tornare indietro; il pensiero non lo sfiorava nemmeno; la sua mente non lo poteva contenere. E questo avrebbe dovuto terrorizzarlo più di ogni altra cosa… ma al posto della paura c’era solo un leggero disagio. Solo il contorno della paura; come se la paura fosse stata seppellita, coperta dalla neve.

Chiuse gli occhi, e procedette con fiducia. Arrivò a una scalinata e la seguì in discesa; non sapeva quanto, ma quando si fermò, l’aria era più calda. Era un’aria calda, viziata e chiusa; succhiò l’umidità dai suoi vestiti e gli compresse il petto.

Arrivò davanti a una stanza. La stanza aveva una pesante porta d’acciaio, ma la porta si aprì senza un suono e con grande facilità quando Michael la toccò.

Entrò.

La stanza conteneva solo una sedia di legno; per il resto era vuota. Una serie di luci puntavano in basso dal soffitto. Michael era solo. Era arrivato, pensò con gioia, al centro dell’edificio.

Ma il misterioso senso dell’orientamento che l’aveva guidato fino a quel momento improvvisamente scomparve, e con quello svanì anche l’inibizione che aveva frenato la sua paura. Improvvisamente si sentì spaventato. Profondamente spaventato, terrorizzato. Era come risvegliarsi da un incubo. Sentì il panico che ribolliva dentro di lui. Che cosa ci faceva lì? Che cosa era quel posto?

Si voltò nuovamente verso la porta, ma scoprì con nuovo terrore che non era in grado di muoversi in quella direzione. Ci provò, ma semplicemente non poteva. Le sue gambe si rifiutavano di funzionare; non riusciva a sollevare i piedi. Non riusciva neanche a inclinare il suo corpo verso la porta, o a lasciarsi cadere in quella direzione.

Si sentì come potrebbe sentirsi una persona intrappolata in un edificio crollato; impotente e imprigionato. Voleva gridare aiuto, ma aveva paura dell’attenzione che avrebbe potuto attirare. Tuttavia, pensò, doveva, averlo già fatto. Per quale motivo si trovava lì, pensò, se non perché qualcuno lo voleva lì?

Avvertì un movimento alla porta, e si rannicchiò sulla sedia di legno. Si aggrappò al bordo del sedile, e fissò con gli occhi sgranati l’irraggiungibile corridoio.

Un uomo entrò nella stanza.

Era l’uomo dell’automobile. L’uomo che gli aveva dato un passaggio fin lì.

L’uomo si avvicinò. Sorrise. Sembrava pervaso da una genuina felicità, e quella era una cosa terribile… irradiava felicità.

— Ciao, Michael — disse. — Io mi chiamo Carl Neumann.

25

— Forse — disse Laura — è andato a fare una passeggiata.

Il che era quantomeno plausibile. A giudicare dallo stato della sua valigia aperta, era ovvio che Michael si era vestito prima di andarsene. Allora, pensò Karen, in effetti esisteva quella possibilità. Poteva essere uscito prima dell’alba. Forse sarebbe tornato.

Era un’idea rassicurante, e dopo un quarto d’ora se ne era quasi convinta, solo che a quel punto si rese conto che la porta della camera era ancora chiusa a chiave, e peggio ancora, era chiusa con la catena… dall’interno.

Quindi, non aveva lasciato la stanza. Non in questo mondo.

Stranamente, riuscì a mantenere la calma anche di fronte a quella rivelazione. Indicò la catena a Laura, che esclamò “Maledizione!”, e digitò una serie di numeri sul telefono. Era il numero che aveva lasciato Tim.

— Stanza 251 — disse Laura a denti stretti. Poi, dopo una lunga pausa: — Fauve. Timothy Fauve… è cosa? Oh, Cristo… No. No, non fa niente. Grazie.

Abbassò la cornetta.

— Se n’è andato — azzardò Karen.

— Questa mattina. Maledizione!

Così, Michael se ne era andato, e Timmy se n’era andato.

L’hanno preso, pensò Karen. Era lui che volevano, e ora lo hanno preso. Ecco che cosa significa.

Ma Michael se ne era andato solo da qualche ora al massimo. Era poco tempo. Voleva riprenderselo… far tornare indietro l’orologio finché non l’avrebbe ritrovato nella stanza, e poi afferrarlo e stringerlo, stringerlo così forte che nessuno avrebbe potuto portarglielo via.

— Una volta — disse Karen — quando Michael aveva appena due anni, erano passati un paio di giorni dal suo compleanno, lo stavo portando in giro in carrozzina mentre facevo la spesa. Eravamo in centro, ed era quasi Natale. I negozi erano affollati. Ero piegata su uno scaffale e gli stavo dando le spalle. Stavo cercando quel sapone profumato che mandavo a mamma tutti gli anni, che le piaceva tanto. Ma il sapone non c’era, e allora stavo frugando fra gli altri prodotti. Mi sembrava come… come se ce ne dovesse essere almeno uno, ma era dietro qualche altra cosa. Così rimasi un sacco di tempo a cercare in quel punto, mentre la folla passava alle mie spalle. Ma non trovai quello che volevo. Così alla fine mi voltai e cercai la carrozzina. Ma non c’era. Era scomparsa, con Michael dentro. Ma io non mi feci prendere dal panico. Rimasi solo di sasso. Era come se avessero tolto il fondo a tutto. Mi girava la testa, ma avevo la mente lucida. Lo chiamai, chiesi alla gente “avete visto una carrozzina? Una carrozzina gialla a fiori?” e intanto mi facevo strada fra i corridoi. E poi la vidi. Ero come un radar; avevo individuato la carrozzina in mezzo alla folla. Era lontana, vicina alle scale mobili. Il mio cuore prese a battere forte. Corsi fino alla carrozzina, spintonando la gente che mi ostruiva il passo. Non me ne importava niente. Era come fare i cento metri.