Il divorzio non era ancora risolto. Nel linguaggio di Gavin, erano “separati”. “Separati” significava che lui l’aveva lasciata nel maggio precedente per andare a vivere con la sua amante nell’appartamento di lei davanti al lago. Per Karen era stato uno shock; la separazione, l’amante, tutto. Gavin recitava con la stessa impeccabilità con la quale vestiva; lei non aveva mai sospettato nulla. Lui gliel’aveva semplicemente detto, una mattina a colazione. Le cose fra noi due non vanno molto bene. Lo so io, come lo sai tu. Molto freddo. Io me ne vado… Si, so dove andare… Si, c’è un’altra donna.
Karen odiava questa situazione. Odiava tutto. Odiava la sua infedeltà, e odiava il fatto che avesse già definito il suo ruolo: la moglie gelosa. Be’, al diavolo, si era detta. Io posso essere fredda quanto lui.
Così, aveva cercato di andare avanti con allegria; nessuna lite, nessuna scenata. Ma ora si chiedeva se non fosse stata semplicemente un’altra resa da parte sua. Gavin, l’avvocato, vedeva la vita come un gioco, uno sport duro giocato sul serio, e quello che aveva ottenuto con Karen era una specie di scacco matto. E questo perché lei nascondeva i suoi sentimenti, e di conseguenza lui non era costretto ad affrontarli.
Era stata giocata e superata in astuzia.
Ma non più. Ora c’erano troppe cose in ballo. Si era preparata una lista prima di uscire di casa: “Domande da fare”. Gavin premeva per iniziare le procedure legali, ma lei sapeva che non doveva concedergli nulla finché non vedeva il suo avvocato; finché non ne trovava uno. Tuttavia, voleva sottoporre alla sua attenzione la gestione della casa.
Voleva traslocare. Doveva traslocare. Non solo le suggeriva ricordi amari, ma c’era anche il problema dell’Uomo Grigio. Si sentiva sola e vulnerabile in quella grande casa di periferia; si sentiva circondata, assediata. Per il bene di Michael, era fondamentale che se ne andassero… e si chiese se non sarebbe stato meglio lasciare addirittura la città. Il punto era che lei non aveva alcuna fonte di reddito indipendente. La settimana prima era andata da un agente di collocamento, e quando lui le aveva chiesto un curriculum, Karen era stata costretta ad ammettere che non lavorava da quando era nato suo figlio. L’uomo l’aveva informata che le sue possibilità erano alquanto limitate.
Quello che le passava Gavin era poco, e lei non voleva chiedergli ancora denaro. Dopo il divorzio, probabilmente le avrebbe pagato gli alimenti. Ma questo sarebbe avvenuto nel futuro.
Quindi, aveva elaborato un piano. Avrebbero venduto la casa. Con la sua parte, Karen avrebbe potuto affittare un appartamento in qualche posto, e iscriversi a un corso professionale, come programmatore di computer, o qualcosa di simile. E gli alimenti, quando infine sarebbero arrivati, avrebbero mantenuto sia lei sia Michael.
Le era sembrata un’ottima idea, quando l’aveva pensata a casa; ma ora, al ristorante, non ne era più tanto convinta. Gavin si era imbarcato in una storia sulla ditta, politica d’ufficio, e non la finiva più. Il cameriere scappò via con il suo formaggio mangiato a metà, e lo sostituì con una tazza di caffè. Karen si rese conto, presa dal panico, che il pranzo era quasi finito, che il tempo era esaurito, e che il coraggio le era venuto meno. — La casa — disse improvvisamente.
Gavin sorseggio il suo caffè e si appoggio una nocca sul mento, pensieroso. — Che cos’ha?
Espose il suo progetto in fretta, balbettando. Lui ascoltò, con una smorfia. Non le piaceva quella smorfia. Era il suo sguardo paziente; il suo sguardo preoccupato; quello sguardo che lei si immaginava allenasse per i suoi clienti. La pensò come la sua espressione sì, ma… ; sì, ma ti costerà più di quanto non credi. Sì, ma dovremo andare in tribunale.
— È una buona idea — disse quando lei ebbe finito — ma è poco pratica.
Sembrava così sicuro di sé; la sua disinvoltura era schiacciante. Karen farfugliò qualcosa a proposito della proprietà comune, delle leggi sul divorzio… non era casa sua; non del tutto.
— Ma neanche tua — finì il suo caffè. — Te l’ho spiegato anni fa, Karen. Quella casa è intestata a mia madre, perché si possano scaricare le tasse. L’ha comprata dalle proprietà di papà. Davanti alla legge, noi non siamo altro che inquilini. Quella casa non appartiene a nessuno di noi due.
Aveva una vaga memoria di tutto ciò. — Ma tu avevi detto che si trattava solo di un cavillo legale.
— Tuttavia…
Karen si sedette in posizione eretta, stupita del suo stesso dispiacere, dalla profondità della frustrazione che si faceva strada dentro di lei. — Non dirmi che è impossibile. Potremmo pur fare qualcosa… — ma questo era un po’ troppo simile a una supplica. — Gavin… io ho fatto i miei progetti…
— Non dipende da me — disse lui. — È che le cose stanno così. Ma tu hai sempre avuto dei problemi in questo campo, vero? Avere a che fare con la realtà non è certo la tua specialità.
La tazza si rovesciò nella sua mano. Il caffè si versò sulla tovaglia, e la tazza cadde sul piattino. Si scostò dal tavolo zuppo.
— Per l’amor di Dio — disse Gavin a denti stretti.
Non aveva mai amato le scenate.
Se ne andò via in macchina, stordita.
Una volta a casa, si sentì febbricitante. Si versò da bere, e andò a sedersi con il suo diario. Si sentiva la mente attiva ma vuota; come un motore che gira in un’automobile ferma. Inaugurò una pagina nuova e scrisse:
“Cara Laura.”
Era come se scrivesse automaticamente, senza volerlo. Una cospirazione fra la penna e le sue dita. Si sorprese continuando:
Accettiamo il tuo invito. Michael e io saremo lì quando riceverai questa lettera. Staremo a quell’albergo di Santa Monica, lo stesso dell’altra volta. Se non c’è posto, lascerò un messaggio lì.
Con amore…
Strappò il foglio e lo firmò. Poi lo mise in una busta, dove scrisse l’indirizzo e aggiunse ESPRESSO URGENTE, dopo averla caricata di francobolli.
L’avrebbe spedita più tardi; o forse no. Be’, pensò, probabilmente no. Era un’idea stupida, impulsiva. Era solo arrabbiata per Gavin.
Accartocciò la busta. Poi, esclamando “Al diavolo!”, la lisciò nuovamente e se l’infilò in borsa.
Fuori, iniziava a fare buio.
Guardò il suo orologio.
Le sei passate. Michael era in ritardo.
Michael uscì da scuola alle quattro e un quarto, e iniziò a camminare verso casa, da solo.
Era riuscito ad evitare Dan e Valerie scendendo negli spogliatoi. Non voleva compagnia, e non voleva neanche uno strappo. Gli andava di stare solo.
Si domandò, non per la prima volta, se la solitudine non potesse essere la sua condizione naturale.
Viveva a sei lunghi isolati dalla scuola, e la via più breve per tornare a casa era giù per due viali residenziali serpeggianti, e poi attraverso un terreno che apparteneva a una compagnia elettrica, irto di pilastri dell’alta tensione, che cantavano con il loro demenziale e acuto ronzio ogni qualvolta la temperatura si abbassava. Era solo settembre, ma l’autunno incalzava seriamente. Notò che quel giorno il ronzio non c’era. Solo silenzio, e il rumore dei suoi passi sull’erba estiva, già marroncina.
Quel luogo gli piaceva; isolato, con i suoi alberi, i suoi campi, e le sue alte torri d’acciaio. Sulla sinistra c’erano delle casette in costruzione, le travi come costole nude; sulla destra, un piccolo boschetto di vecchi aceri. E al centro, c’era quel prato; un terreno da pascolo leggermente scosceso che appariva spelacchiato ai piedi dei piloni della luce. Camminandoci in mezzo, si sentiva sospeso fra due mondi; la scuola e la casa, la città e la campagna.