Appena arrivate, si erano incamminate sulla neve dopo aver superato i cancelli di ferro nero di quel brutto edificio, e avevano attraversato il cortile con le sue lunghe ombre mattiniere. Michael era lì dentro, aveva detto Karen. Laura non riusciva a sentirlo, ma l’aveva presa in parola. Trovarlo e uscire subito, aveva pensato. Perché noi possiamo farlo; possiamo andarcene con un passo laterale quando ci pare e piace.
Era un’idea rassicurante.
Ma a ripensarci, se era vero, perché Michael non era ritornato a casa? Come avevano fatto a tenerlo lì?
Ma era una domanda alla quale non poteva rispondere. Andiamo avanti, si era detta. Avanti, lungo questi corridoi serpeggianti, corridoi come le radici di un vecchio albero, che s’infilò nelle profondità della terra. L’aria era chiusa e puzzava di anestetico, sovrastato però da qualche altro odore nauseabondo, come di garofani. Gira, gira e gira nella semioscurità. Era diventato automatico.
Poi si era fermata, e aveva cercato Karen. Ma Karen non c’era più.
Quella sparizione la preoccupò, ma forse non quanto avrebbe dovuto. Proseguì ugualmente… non proprio senza scopo, ma senza nessuna meta conscia. Semplicemente, accadeva. Era come camminare nel sonno. Si sentiva effettivamente addormentata. Si sentiva narcotizzata.
Ecco che cos’era, si disse Laura; era come essere sotto l’effetto di qualche droga; non una droga psichica o uno stimolante, ma un qualche narcotico soporifero; un qualcosa di sciropposo e potente, come immaginava doveva essere l’oppio. Continuò a camminare su quelle piastrello tetre e asettiche, pensando, “da questa parte per la Città di Smeraldo… attraverso il campo di papaveri…”
Il corridoio si restrinse finché diventò appena poco più largo del suo corpo stesso.
Da qualche parte, suonava un campanello. Un campanello d’allarme, pensò Laura. Stava segnalando qualche genere di emergenza. Ma lei l’ignorò, e continuò a camminare.
Poi, il corridoio finì, e lei si trovò davanti a una stanza, un ultimo cul-de-sac senza nemmeno una finestra, debolmente illuminato, con un ingresso ad arco. Ma dev’essere questo ciò che io voglio, pensò Laura. Deve essere qui che avevo intenzione di venire.
Entrò dalla porta stretta, e vide una donna.
Non se l’aspettava. La donna sembrava talmente comune. Era una donna normalissima di mezza età, che indossava abiti familiari; un paio di Levi’s e una camicia larga, forse vestita in maniera un po’ troppo giovanile per la sua età. I suoi capelli iniziavano a diventare grigi, e l’espressione del suo viso era intensa. Un misto di stupore e di smarrimento. Questa donna, pensò, dev’essersi persa in qualche modo.
Ma poi mosse un passo nella stanza, e lo fece anche la donna. Solo allora si rese conto che la parete opposta era uno specchio, e che la donna era lei.
Improvvisamente, sentì che le cedevano le ginocchia. Non sono io! pensò. Quella non sono io. Io non sono affatto così! Io sono quella carina… e, fra l’altro, che cosa ci faccio io qui? Dove sono tutti quanti? Dov’è Karen, dov’è Michael?
Voleva tornare indietro, ma non poteva. Invece, fece un altra passo avanti (e lo fece anche quel riflesso triste e smarrito), e si voltò, ma solo per scoprire, con orrore, che anche le pareti laterali erano specchi, e che gli angoli che formavano creavano più immagini di lei stessa di quante ne potesse tollerare; un’infinità d’immagini, moltiplicate lungo gli scuri corridoi specchiati, tutte che la fissavano con quell’espressione totalmente confusa. Non sono io, si disse ancora. Nessuna di queste sono io. Alzò le mani per mandarle via, come fossero stati corpi fisici che le si erano affollati attorno. Voleva andarsene… ma, misteriosamente, si sentiva troppo debole per muoversi; la porta era troppo lontana. Non possono tenerci qui, pensò, e cercò brancolando una via d’uscita, una via per San Francisco e la luce del sole; una porta segreta, o una finestra nascosta.
Ma non c’erano vie. Niente porte, niente finestre, niente uscite. Solo specchi, come pozzi, che la tiravano giù. Avvertì una vampata di terrore claustrofobico, e vide la donna dello specchio che la fissava a sua volta, con gli occhi sgranati e la bocca spalancata in un grido, rendendosi conto all’improvviso che era in trappola, che non c’era via di scampo, e che non c’era nessun altro lì, tranne lei stessa.
Il cardinale Palestrina raggiunse Carl Neumann nel suo ufficio dell’Istituto di Ricerca per la Difesa.
L’ufficio era affollato. C’era un uomo che Palestrina individuò come un burocrate del Pentagono; il superiore di Neumann. E c’erano tre veggenti dell’Istituto; creature nane con semplici grembiuli di cotone. Vide anche due di quegli uomini che Neumann chiamava scienziati, ma che lui preferiva considerare stregoni; gli uomini che avevano messo in atto gli incantesimi vincolanti.
L’eccitazione che regnava nella stanza era palpabile. Soprattutto, si vedeva in Neumann. Era il suo trionfo, la gratificazione che aveva dovuto aspettare per troppi decenni. Il suo viso era rosso e gli occhi gli schizzavano per tutta la stanza, come se avesse voluto memorizzarla insieme a tutti i dettagli di quella giornata, alle persone presenti, e alle loro espressioni. Guardò Palestrina, e gli si avvicinò.
— Il ragazzo è già qui? — chiese il cardinale.
— Lo teniamo in isolamento da diverse ore — disse Neumann con un sorriso. — E sembra aver attirato a sé gli altri. Come api al miele. Sta arrivando tutto assieme.
— Quando potremo vederlo?
— Presto. Stiamo aspettando che sia tutto in ordine. Abbiamo incantesimi e fatture che prepariamo da vent’anni, e stanno operando tutti proprio qui, proprio in questo momento. Dio mio, lo si sente nell’aria.
Il cardinale immaginò che in effetti si potesse sentite. L’aria aveva un odore strano, come se fosse stata bruciacchiata con qualche macchinario enorme e bollente.
— Stiamo solo aspettando che ci diano l’okay i nostri veggenti — disse Neumann.
I tre veggenti nani, che a giudicare dai lineamenti nodosi e ammassati dovevano essere degli omuncoli, sedevano sulle loro sedie, con lo sguardo fisso nel vuoto. Ce n’era uno per ciascuno di loro, spiegò Neumann. Uno per Laura, uno per Karen e uno per Michael, ognuno in tandem con il proprio soggetto. Mentre il cardinale li guardava, uno di loro sbadigliò e si stiracchio. Il gesto fu talmente animalesco… talmente poco umano, che Palestrina dovette trattenere un brivido.
L’omuncolo gli sorrise dalla parte opposta della stanza. Un ghigno ferino.
— Ma siete in grado di tenerli? — chiese Palestrina a Neumann.
— Ne siamo certi. Questo edificio è una gabbia; così è stato progettato. Dal giorno della prima fuga, abbiamo iniziato a studiare il problema, e alla fine abbiamo progettato ciò che riteniamo sia una barriera insormontabile. Capirete che non si tratta semplicemente di una barriera fisica.
— Magia imprigionante — disse Palestrina.
— Esattamente.
— E siete in grado di calcolarla con tanta precisione?
— Crediamo di sì.
— Si dice, e vi prego di non interpretare male le mie parole, che gli americani siano particolarmente ferrati nelle scienze profane.
Neumann si sentiva generoso. — Ma è vero — ammise candidamente — basta che vi guardiate attorno!
Il cardinale Palestrina si servì un’altra tazza di caffè dalla caffettiera nell’angolo dell’ufficio. Berne troppo gli avrebbe dato dolori di stomaco, ma sentiva di aver bisogno di stare ben sveglio. Molte cose stavano per accadere.