Un’altra vampata di dolore bruciante, straziante. Fra un attimo avrebbero raggiunto una mortale efficacia, rinnovando i loro attacchi fino a quando…
Senza preavviso, Harker colpi con violenza McLaren alla mascella, e lo trascinò più in alto, là dove la roccia era solida, compatta. Fece tutto questo con rapidità ed energia stupefacenti. Non c’era nessun bisogno che salvasse se stesso. Non avrebbe avuto bisogno di se stesso ancor per molto.
Si allontanò più o meno d’un trentina di metri, sempre con gli occhi fissi su McLaren. Un terzo attacco lo colpi: si sentì stordito e nauseato, e quasi cadde al suolo. Rory McLaren, questa volta, non era stato toccato.
Harker sorrise. Si girò e tornò indietro di corsa verso il punto franoso in mezzo ai dirupi. Una parte del suo pensiero cosciente si era concentrato su quell’idea con tale intensità che il suo corpo gli obbedì automaticamente, senza fermarsi neppure quando le fiamme investirono ancora, e ancora, la sua pelle, ravvivandosi, crescendo, rafforzandosi sempre più man mano le energie mentali del popolo di Fiordaliso si fondevano insieme sempre meglio, in forma sempre più completa. Abbatté un tentennante colosso di pietra, e l’urto ne smosse un altro. Harker ne raggiunse barcollando un terzo, appoggiato su un letto scivoloso di scisto, spinse con tutte le sue forze e anche di più, e anch’esso crollò con un fragore di tuono.
Harker cadde. L’universo si dissolse in un caos ruggente, al di là d’un vivido velo di fiamma e all’acre odore di carne bruciata. A quel punto, una cosa soltanto era chiara nella mente di Harker, un’immagine prodotta dalla seconda porzione della sua coscienza, collegata alla prima e perfino più forte di questa.
L’immagine che portò con sé nella morte era un’alta montagna incappucciata di candida neve che risplendeva, abbacinante, al sole.
Era notte. Rory McLaren giaceva prono su una sporgenza sopra la valle. Sotto di lui, la valle scompariva in un’immensa distesa d’ombra color indaco, ma c’era un nuovo, lontano fragore: un rabbioso, fremente turbinio dell’acqua.
E c’era anche nuova vita. Cavalcava la cresta delle acque inondanti, ardendo dorata nerazzurro cupo della notte, risplendenti giganti che ritornavano, vendicativi, al loro antico luogo d’origine. Grandi chiazze di avvampante fosforescenza, dalla sfumatura di gioielli, punteggiavano le acque: i fiori cacciatori, scatenati all’inseguimento delle prede. E fra essi, nelle mille evoluzioni d’un gioco mortale, guizzavano i piccoli dei nuotatori. McLaren contemplò la caccia al popolo della foresta. Per tutta la notte guardò, tremando per la paura, mentre i titani dorati riscuotevano il pagamento delle molte epoche trascorse nel buio. All’alba era tutto finito. E poi, durante il giorno successivo, vide morire i nuotatori.
Il fiume, ripiegatosi su se stesso, gl’impediva di far ritorno alle caverne. E l’intensa, vivida luce esterna li abbatteva. Dapprima i nuotatori si rivolsero ad essa, salutandola con patetica gioia. Poi si resero conto…
McLaren guardò altrove. Aspettò, riposando, fino a quando, come Harker aveva predetto, la barriera rocciosa fu spazzata via dal tremento peso dell’acqua accumulata, e il grande lago che aveva invaso la valle tornò a vuotarsi, e il fiume riprese a scorrere normalmente. Quando McLaren raggiunse il passo tra le rocce, la valle già si stava prosciugando.
McLaren alzò lo sguardo verso le montagne e respirò il vento fresco e salubre, e provò una grande vergogna e umiltà per trovarsi lì, a far questo.
Guardò verso la caverna, dove Sim era morto, e le rupi sovrastanti, che avevano sepolto i resti di Matt Harker. Gli parve di dover dire qualcosa, ma non gli vennero le parole, il suo petto era così gonfio che riusciva appena a respirare. Si voltò, e discese in silenzio il passo roccioso verso il Mare degli Opali Mattutini e i tremilaottocento nomadi che avevano trovato una casa.