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Guardò per un attimo il volto di McLaren. La speranza che l’aveva illuminato poco prima aveva lasciato il posto alla stanchezza. Era morta. Morta come il resto di Venere.

Gibbons chiamò i capi a bordo della sua nave: i condottieri, i combattenti, i cacciatori e i marinai, gli uomini duri e coriacei che costituivano la dura corazza intorno al corpo molle della colonia. C’erano anche Harker e McLaren. McLaren era giovane e fino a poco tempo prima aveva avuto la qualità dell’ottimismo che incoraggiava i suoi compagni di nave, una naturale inclinazione a guidare gli uomini.

Gibbons era vecchio. Era lo spirito-guida originario dei cinquemila coloni che erano venuti dalla Terra per ricominciare a vivere sul nuovo mondo. Il tempo e le tragedie, le delusioni e i tradimenti l’avevano crudelmente segnato, ma teneva ancora la testa alta. Harker ammirava il suo coraggio, pur maledicendolo come pazzo idealista.

Com’era inevitabile, cominciarono a discutere se dovessero o no tentare un insediamento permanente su quella distesa di fango, oppure continuare a vagare su quel mare inesplorato e interminabile.

Harker dichiarò, impaziente: «Perbacco, ma guardate il posto! Ricordatevi dell’ultima volta. Ricordatevi della volta prima dell’ultima, e smettetela di blaterare».

Sim, il grande uomo nero, replicò con calma: «La gente comincia ad essere tremendamente stanca. L’uomo è nato per aver radici da qualche parte. Avremo ben presto dei guai se non troveremo un pezzo di terra».

Harker sbottò: «Se pensi di poterlo trovare, amico, allora fallo».

Gibbons disse in tono grave: «Ma Sim ha ragione… C’è isterismo, tra noi, febbre, dissenteria e noia, e la noia è la cosa peggiore di tutte».

McLaren esclamò: «Io voto perché ci stabiliamo qui».

Harker scoppiò a ridere. Era appoggiato al portello della cabina e fissava la scogliera, là fuori. Il granito grigio s’innalzava pulito sopra la palude. Harker cercò di penetrare le nubi che ne nascondevano la sommità, ma non ci riuscì. Socchiuse gli occhi. Le voci eccitate dietro di lui si smorzarono un po’ per volta. D’improvviso, si girò verso Gibbons e disse: «Signore, vorrei che mi venisse dato il permesso di vedere cosa c’è in cima a quella scogliera».

Seguì un completo silenzio. Poi Gibbons lo ruppe, scandendo le parole: «Abbiamo perso troppi uomini in esplorazioni del genere, e questo soltanto per scoprire un altopiano inabitabile».

«C’è sempre una possibilità. Il nostro primo insediamento era sugli altipiani, non ricorda? Aria pulita, terreno buono, niente febbre».

«Ricordo», annuì Gibbons. «Sì, ricordo…». Restò silenzioso per un po’, poi lanciò ad Harker un’occhiata d’intesa. «Ti conosco, Matt. Tanto vale che ti dia il permesso».

Harker sogghignò. «In tutti i casi non sentirete troppo la mia mancanza. Non rappresento più una buona influenza sugli altri». Si avviò verso l’uscita. «Datemi tre settimane. In ogni caso, è tempo che vi mettiate a raschiare e a rattoppare la chiglia delle navi. Forse tornerò con qualcosa di concreto».

McLaren interloquì: «Vengo con te, Matt».

Harker lo fissò senza scomporsi. «Tu farai meglio a restare con Viki».

«Se c’è del buon terreno, là sopra, e dovesse capitarti qualche guaio che t’impedisce di tornare indietro a dircelo…»

«O che non avessi più voglia di tornare indietro, forse?»

«Non ho detto questo. Potremmo anche non farcela tutti e due a tornare. Ma due… è sempre meglio di uno».

Harker sorrise. Un sorriso enigmatico e non molto piacevole. Gibbons s’intromise: «Ha ragione lui, Matt». Harker scrollò le spalle. Poi Sim si alzò in piedi.

«Due va bene», dichiarò, «ma tre è meglio ancora». Si rivolse a Gibbons: «Siamo quasi in cinquecento, signore. Se lassù c’è una nuova terra, dovremo dividere la fatica di trovarla».

Gibbons annui. Harker ribatté: «Sei matto, Sim. Perché vuoi farti tutta quella scalata, magari per non arrivare da nessuna parte?»

Sim sorrise. I suoi denti spiccarono incredibilmente bianchi sul nero lucido di sudore del suo viso. «Ma è quello che la mia gente ha sempre fatto, Matt. Un sacco di scalate per non arrivare in nessun posto».

Fecero i loro preparativi e si dedicarono a un’ultima notte di sonno. McLaren salutò Viki. La donna non pianse. Sapeva perché lui partiva. Lo baciò; tutto quello che gli disse, fu: «Stai attento». Tutto ciò che Rory disse, fu: «Tornerò prima che lui nasca».

Si misero in viaggio all’alba, portando con sé pesce secco e frutti di mare trasformati in strisce di carne essicata, e i loro lunghi coltelli e le corde per la scalata. Da molto tempo avevano finito ie munizioni per i pochi fulminatori di cui disponevano, e non avevano le attrezzature per produrne altre. Tutti erano assai esperti con le lance, e ne portavano tre, appese alla schiena, corte e munite di spine confezionate con ossa.

Quando attraversarono il tratto fangoso, pianeggiante, pioveva, e dovettero guardarlo affondando fino alle cosce nella nebbia fitta. Harker li guidò attraverso la cintura paludosa. Era un veterano in queste imprese, con una rapidità soprannaturale nell’individuare quella vegetazione che era viva, indipendente e affamata quanto lui. Venere è un’immensa serra, e le piante si sono sviluppate in innumerevoli specie, strane e fantastiche, almeno quanto i rettili e i mammiferi, capaci di strisciar fuori da quei mari pre-cambriani simili a primitivi flagellati, per sviluppare poi una propria volontà, con appetiti e motivazioni in proporzione. I bambini dei coloni imparavano sin dalla più tenera infanzia a non coglier fiori. Troppo spesso i germogli rispondevano a morsi.

La palude non si estendeva per molto, e ne uscirono sani e salvi. Un grande drago delle paludi, un leshen, urlò non molto lontano, ma era un cacciatore notturno e adesso era troppo pieno di sonno per dar loro la caccia. Infine, Harker mise il piede sul terreno solido, e si mise a studiare la scogliera.

La roccia era stata resa ruvida dalle intemperie, incisa da molti millenni d’erosione, e per di più squassata dai terremoti. C’erano tratti di scisti crollati e frantumati, grandi lastre che parevano sul punto di precipitare al solo sfiorarle, ma Harker annuì. «Possiamo arrampicarci», dichiarò. «Il problema è: quant’è alto, lassù in alto?»

Sim scoppiò a ridere. «Forse alto abbastanza per la città d’oro. Abbiamo tutti la coscienza pulita? Non posso portare il peso del peccato così lontano!»

Rory McLaren guardò Harker.

Harker disse: «D’accordo, lo confesso. Non m’importa affatto se lassù c’è o no una buona terra per noi. Tutto quello che volevo era andarmene via da quella stramaledetta nave prima di perdere del tutto la testa. Così, adesso lo sapete».

McLaren annuì. Non parve sorpreso. «Arrampichiamoci». Il mattino del secondo giorno giunsero in mezzo alle nubi. Salirono sempre più in alto strisciando attraverso un vapore semiliquido, dalle sfumature opaline, insopportabilmente caldo. Continuarono a salire strisciando per altri due giorni. Per le prime notti Sim cantò durante il suo turno di guardia, mentre gli altri due riposavano distesi su qualche cengia. Dopo, però, anche Sim fu troppo stanco.

McLaren cominciò a cedere, anche se non lo disse. Matt Harker divenne più taciturno e il suo umore peggiorò ancora, se ciò era possibile, ma per il resto non ci furono cambiamenti. Le nuvole continuavano a nascondere la sommità dello strapiombo.

Durante uno dei brevi riposi, McLaren disse con voce rauca: «Ma questa scogliera non finisce mai?» La sua pelle era giallognola, gli occhi vitrei per la febbre.

«Forse», rispose Harker, «salgono dritte al di là del cielo». La febbre era tornata a cogliere anche lui. Essa viveva nel midollo degli esuli, riaffiorando a intervalli per scuoterli e bruciarli, per poi ritirarsi. A volte non si ritirava, e dopo nove giorni non aveva più bisogno di farlo.