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McLaren gridò e scalciò. Un paio d’artigli, piccole cose spinose acuminate come aghi, gli stavano graffiando una caviglia. Sim trapassò un petto dorato con la sua lancia. Non avevano ossa. Il corpo era leggero e membranoso, e il sangue che ne gocciolò fuori era verdastro, appiccicoso, come la linfa d’una pianta. Harker rispedi dentro il fiume con un calcio due di quegli esseri, fece roteare la lancia come una mazza da baseball e ne sbalzò giù altri due dalla banchina rocciosa — erano incredibilmente leggeri — e urlò: «Lassù, su quella cengia in aito. Non credo possano arrampicarsi fin lassù».

Spinse McLaren davanti a sé e aiutò Sim in una breve scaramuccia di retroguardia, mentre si arrampicavano tutti e tre lungo un passaggio difficile. Giunto in cima, McLaren si rannicchiò, e scagliò pietre giù, verso gli aggressori. C’era una grande fessura che correva lungo tutto il soffitto della caverna, la cicatrice di qualche antico terremoto. Qualche istante dopo, un punto del costone smottò, producendo una piccola slavina.

«Su, basta», ansimò Harker. «Piantala prima di far crollare tutto il soffitto. Non possono seguirci quassù». I pianni erano attrezzati per nuotare, non per arrampicarsi. Artigliarono rabbiosamente la roccia, ma scivolarono e ricaddero all’indietro; infine, si ritirarono nell’acqua pieni di rancore. D’un tratto afferrarono il corpo esanime ancora con la lancia di Sim piantata attraverso, e lo divorarono, litigando ferocemente tra loro per i bocconi migliori. McLaren si sporse oltre la cengia e vomitò.

Anche Harker non si sentiva molto bene. Ma si rialzò in piedi e riprese ad arrampicarsi. Sim aiutò McLaren, la cui caviglia sanguinava parecchio.

Quell’alta cengia saliva a un forte angolo, correndo tutt’intorno alla parete della grande caverna occupata dal lago. Qui l’aria era più fresca e asciutta, e i licheni si diradavano sempre più, fino a svanire, lasciando ogni cosa nella più totale oscurità. Harker, a una svolta, cacciò un grido. A giudicare dall’eco, quella cavità era immensa.

Sotto, nell’acqua nera, i corpi dorati sfrecciavano come comete in un universo color ebano, scomparendo una dopo l’altra tutte nella stessa direzione. Harker avanzava tastando tutt’intorno a sé: la sua pelle fremeva per l’impulso nervoso del pericolo, la sensazione di qualcosa d’invisibile, innaturale e maligno.

Sim disse: «Ho sentito qualcosa».

Si arrestarono. L’aria cieca sapeva d’una intensa fragranza, piacevolmente aromatica… ma in qualche modo impura. L’acqua sospirava pigramente molto più in basso. In qualche punto davanti a loro si udiva lo sciabordio tranquillo d’una corrente: Harker giudicò che fosse quello il punto in cui il fiume penetrava nella caverna. Ma non erano questi i rumori sui quali Sim aveva richiamato la loro attenzione.

Il negro aveva inteso parlare del fruscio fremente che sembrava giungere da ogni punto della caverna. Ora la superficie del lago era costellata di chiazze colorate d’una vivida fosforescenza, che lasciavano dietro di sé scie impetuose. Le macchie crebbero rapidamente di numero, facendosi più vicine, e divennero tappeti di fiori, scarlatti, azzurri, dorati e purpurei. Ce n’erano interi campi galleggianti, rimorchiati sull’acqua da risplendenti nuotatori.

«Mio Dio», sillabò Harker, gli occhi sbarrati. «Quanto sono grandi?»

«Quel che basta a farne tre di me». Sim era un uomo grande e grosso. «Quelli piccoli, prima, erano davvero i bambini. Sono andati a chiamare i loro papà. Oh, Signore!»

I nuotatori erano assai simili alle creature più piccole che li avevano attaccati più in basso, salvo per le dimensioni gigantesche. Ma non erano pesanti, impacciati. Erano magnifici, agili di membra e leggeri. Le loro membrane si erano allargate in grandi ali lucenti, ogni nervatura terminava con un’estremità di fuoco. Soltanto le loro teste dorate, simili a bocche di leone, erano cambiate.

Avevano perso i petali. Le loro teste di adulti erano coronate da piatte escrescenze che avevano la bellezza velenosa e sordida dei funghi. E i loro volti erano in tutto umani.

Per la prima volta dai tempi dell’infanzia Harker si sentì raggelare.

I campi di fiori fiammeggianti furono riuniti insieme in un grande turbinio ai piedi della scogliera. I giganti dorati tutt’a un tratto si misero a gridare, una sonora nota squillante, e l’acqua cominciò a ribollire, sollevando una schiuma avvampante quando a migliaia quei corpi simili a fiori ne uscirono e cominciarono ad arrampicarsi su per la roccia su lunghe zampe a ventosa, simili a quelle dei ragni.

Sembrava fosse del tutto inutile provarsi a fuggire, ma Harker li sollecitò: «Scappiamo via!» Adesso da quell’esercito là sotto s’irradiava luce sufficiente a illuminare il cammino davanti a loro. Harker cominciò a correre sulla sporgenza rocciosa con gli altri alle calcagna. I fiori che li inseguivano si arrampicavano veloci, mentre i loro padroni nuotavano comodamente più in basso, osservando la scena.

La sporgenza rocciosa curvò verso il basso. Harker schizzò lungo di essa come un cervo. Al di là del punto più basso, Harker si tuffò in una nuova galleria, quella da cui proveniva il fiume. Una breve galleria, alla cui estremità…

«La luce del giorno!» urlò Harker. «La luce del giorno!»

La gamba sanguinante di McLaren cedette e il giovane cadde al suolo.

Harker lo agguantò. Erano sul punto più basso della discesa. Le bestie-fiori erano subito sotto di loro e stavano ormai per raggiungerli. Il piede di McLaren era gonfio, il polpaccio esangue. Un’infezione dal fulmineo decorso dovuta agli artigli dei pianni. McLaren si dibatté nella stretta di Harker. «Vattene», lo sollecitò. «Corri, salvati!»

Harker lo colpi con forza alla tempia e ricominciò ad avanzare, trascinando con sé il corpo esanime del giovane. Ma vide che non avrebbe funzionato: McLaren pesava più di lui. Lo gettò tra le braccia possenti di Sim. Il grosso negro annui e continuò la corsa reggendo McLaren come un bambino. Harker vide i primi fiori salire sulla sporgenza rocciosa davanti a loro.

Sim li scagliò via: non erano molto grossi, e in quell’avanguardia erano soltanto in tre. Altri comparvero dietro di loro e si lanciarono all’inseguimento: Harker li colpi con la lancia, squarciandoli con gli uncini d’osso. Ma ormai erano in molti ad aver completato la scalata e li inseguirono come una grande onda di marea luminosa. Harker accelerò, ma i fiori erano più veloci. Li ricacciò indietro con la lancia e il coltello e riprese a correre, poi tornò a voltarsi per combattere ancora; quand’ebbero infine percorso tutta la galleria, Harker barcollava, stremato.

Sim si arrestò. Disse: «Non c’è via d’uscita».

Harker alzò lo sguardo: il fiume precipitava da una parete a picco: il salto era troppo alto, e il getto d’acqua aveva troppa forza perché anche i giganteschi pianni potessero pensare di affrontarlo. La luce del giorno si riversava su di loro dall’alto, calda e accogliente come avrebbe potuto esserlo su Marte.

Vicolo cieco.

Poi Harker individuò il piccolo canale eroso che saliva contorto su un lato. Era poco più di uno scolo, lungo e asciutto, e formava un passaggio fino alla sommità della cascata, una fessura a stento larga perché un uomo riuscisse a strisciarvi attraverso. Era una speranza fin troppo vaga, un azzardo, ma…

Harker l’indicò, fra una stoccata e l’altra contro i fiori che sciamavano dappertutto. Sim gridò: «Tu per primo». Harker, poiché era il miglior scalatore, obbedì, aiutando McLaren ancora intontito a salire dietro di lui. Sim maneggiava la lancia come un dardo fiammeggiante, proteggendo le loro spalle, strisciando all’insù un centimetro dopo l’altro.

Raggiunto un appoggio abbastanza sicuro, si fermò. Il suo petto gigantesco si gonfiava come un mantice, le sue braccia continuavano ad alzarsi e ad abbassarsi come sbarre d’ebano. Harker gli gridò di continuare a salire. Lui e McLaren erano quasi arrivati in cima.