Sim scoppiò a ridere: «Come intendi farmi passare attraverso quel buchetto?»
«Vieni su, pazzo!»
«Farete meglio a sbrigarvi. Io sono pressoché finito».
«Sim! Sim, dannazione a te!»
«Striscia fuori da quel buco, tappo, e tirati dietro quello spilungone! Io sono un uomo che ha le dimensioni di un uomo, e devo restar qui». Poi, infuriandosi: «Sbrigati, altrimenti ti trascineranno indietro prima che tu sia passato!»
Aveva ragione. Harker sapeva che aveva ragione. Si mise al lavoro spremendo McLaren attraverso la stretta apertura. McLaren era ancora intontito, ma era magro e con le ossa sottili, e ce la fece. Ruzzolò fuori su un pendio coperto d’erba verde, la prima che Harker vedeva dai giorni in cui era bambino.
Ora Harker si affannò per seguire McLaren. Non si voltò a guardare Sim.
L’uomo nero stava cantando tutta la gloria della venuta del Signore.
Harker tornò a infilare la testa nel buio dello stretto condotto: «Sim!»
«Sì?» Debole, rauco, echeggiante.
«Qui c’è terra, Sim. Una buona terra».
«Già».
«Sim, troveremo a tutti i costi il modo…»
Sim aveva ripreso a cantare. La sua voce si fece più fioca, allontanandosi sempre più verso il basso. Le parole si smarrirono, ma non ciò che sottintendevano. Matt Harker affondò il viso nell’erba verde, e la voce di Sim scomparve con lui nel buio.
Le nubi si stavano colorando dei bagliori del sole nascosto che tramontava. Erano sospese sopra di loro come un baldacchino d’oro intriso di sangue. Vi era un profondo silenzio, interrotto soltanto dal canto degli uccelli. Giù nei luoghi bassi non si udivano mai simili canti d’uccelli. Matt Harker ruotò su se stesso e lentamente si rizzò a sedere. Gli pareva di essere stato picchiato a sangue. Provava nausea e vergogna, e l’antica, micidiale collera era avvolta in strette spire intorno al suo cuore.
Davanti a lui si stendeva un ampio pendio erboso che arrivava fino al fiume, il cui corso curvava verso sinistra, allontanandosi fino a sparire dietro uno sperone roccioso. Oltre il pendio si stendeva un vasto terreno pianeggiante, e ancora più oltre una foresta d’alberi giganteschi. Parevano galleggiare in un alone color rame, le fronde scure dispiegate come ali e costellate di fiori. L’aria era fresca, senza alcun sentore di fango e di marcio. L’erba era abbondante, il suolo pulito e morbido.
Rory McLaren cacciò un gemito sommesso e Harker si voltò verso di lui. La gamba del giovane aveva un pessimo aspetto. McLaren era in preda a un crescente stordimento, la sua pelle era arrossata e arida. Harker imprecò a bassa voce, chiedendosi cosa mai avrebbe potuto fare.
Si voltò indietro a guardare verso la pianura, e vide la ragazza.
Non sapeva come fosse arrivata li. Forse era sbucata fuori dai cespugli che crescevano in folte macchie qua e là sul pendio. Poteva esser lì da parecchio tempo, a osservarli. E anche adesso teneva il suo sguardo puntato su di loro, restando immobile a una dozzina di passi. Una grande farfalla scarlatta si teneva aggrappata alla sua spalla, muovendo le ali con pigra voluttuosità.
Pareva più una bambina che una donna. Era nuda, piccola di statura, deliziosamente snella. La sua pelle, sotto il biancore, aveva una lieve sfumatura verde. I suoi capelli, simili a foglie d’erba e raccolti in corte ciocche ricciute sulla testa, erano d’un azzurro cupo, e anche i suoi occhi erano azzurri, e strani.
Harker la fissò, e lei fissò lui, senza che nessuno dei due accennasse a muoversi. Un uccello dai vividi colori scese giù in picchiata e si librò per un attimo accanto alle sue labbra, accarezzandole col becco. Lei lo sfiorò con una carezza, e sorrise, ma non distolse gli occhi da Harker.
Harker si alzò in piedi, lentamente. La chiamò: «Ehi».
La ragazza non si mosse, né produsse alcun suono, ma tutt’a un tratto un paio di enormi uccelli con becco e artigli come quelli di un’aquila, e neri come il peccato, si tuffarono giù dal cielo e sfiorarono la testa di Harker con un sibilante fruscio, poi tornarono in alto e si misero a girare in cerchio.
Harker tornò a sedersi.
Gli strani occhi della ragazza si staccarono da lui, fissando la fenditura, più in alto sulla parete rocciosa, dalla quale era uscito. Le sue labbra non si mossero, ma la sua voce — o qualcosa del genere — gli parlò chiaramente dentro la testa:
«Sei venuto da… là». Quel Là conteneva una fremente carica di eccitazione, per niente piacevole.
«Harker replicò: «Sì. Telepate… uh?»
«Ma tu non sei…» L’immagine di alcuni nuotatori dorati si formò nella mente di Harker. Erano chiaramente riconoscibili, ma l’odio e la paura avevano spazzato via da essi ogni traccia di bellezza, lasciando soltanto l’orrore.
Harker disse: «No». Le spiegò cos’era successo a lui e a McLaren. Le parlò di Sim. Sapeva che lei stava ascoltando attenta la sua mente, saggiandola per controllare se diceva la verità. Ma non lo preoccupava ciò che lei vi avrebbe trovato.
«Il mio amico è ferito», le disse. «Abbiamo bisogno di un rifugio».
Per un po’ non vi fu risposta. La ragazza era era tornata a fissarlo. Il suo volto, la forma e la struttura del suo corpo, i suoi capelli, e infine i suoi occhi. Non era mai stato guardato in quel modo prima di allora. Cominciò a sogghignare. Un sogghigno provocante del tipo «che tu sia dannata…», che arricchiva d’una luce e d’un fascino sorprendenti la sua personalità sardonica.
«Tesoro», le disse, «sei formidabile. Animale, vegetale o minerale?»
Lei drizzò la piccola testa rotonda con un guizzo per la sorpresa, e gli restituì, pronta, la stessa domanda. Harker scoppiò a ridere. Lei sorrise, piegando la bocca in una V invitante, e i suoi occhi scintillavano vividi. Harker accennò a muoversi verso di lei.
E nell’identico istante i due rapaci lo ammonirono a tornare indietro. La ragazza scoppiò a ridere, un’increspatura d’allegria sbarazzina. «Vieni», lo invitò, e si voltò.
Harker si accigliò. Si chinò e parlò a McLaren con insolita gentilezza. Riuscì in tal modo a convincere il giovane a rizzarsi in piedi, poi se lo caricò sulle spalle, vacillando un poco sotto il suo peso. McLaren parlò, staccando le sillabe: «Sarò di ritorno prima che nasca».
Harker attese finché la ragazza non si fu decisamente avviata, poi la seguì, tenendosi a debita distanza. I due grandi uccelli neri lo seguirono vigili. Attraversarono la folta erba del pianoro in direzione degli alberi. Adesso il cielo aveva tutto il colore del sangue.
Una leggera brezza avvolse la testa della ragazza e prese a giocare coi suoi capelli. Matt Harker vide che quei capelli erano corti e piatti, come petali azzurri.
3
Fu una lunga camminata, prima di raggiungere la foresta. L’intero altopiano, lassù, sembrava avere una forma a scodella, protetta da alte rupi tutt’intorno. Harker, riandando col pensiero al loro primo insediamento di tanto tempo prima, decise che quel posto era infinitamente migliore. Era quasi la visione che aveva avuto nei suoi sogni febbricitanti: la Terra Promessa. Era come se l’aria tersa e fresca di quell’altopiano gli avesse tolto dei pesi dai polmoni, dal cuore, da tutto il corpo.
Ma anche se quell’aria pulita gli restituiva vigore e giovinezza, non riusciva a compensare del tutto il peso di McLaren. Poco dopo, Harker fu costretto a dirle: «Aspetta», e si sedette, facendo rotolare con delicatezza il corpo di McLaren sull’erba folta. La ragazza si fermò. Tornò indietro di qualche passo e studiò Harker, che stava sbuffando come un cavallo esausto.
Harker sollevò gli occhi su di lei, sogghignando.
«Sono sfinito», le spiegò; «Ho consumato troppe energie per un uomo della mia età. Non puoi chiamare qualcuno che mi aiuti a portarlo?»