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Ancora una volta lei lo studiò in silenzio, affascinata e perplessa. La notte stava ormai per chiudersi sopra di loro, era d’una sfumatura indaco, più chiara della notte cupa che tutti opprimeva al livello del mare. Gli occhi della ragazza mostravano una curiosa luminosità nel buio.

«Perché lo fai?» gli chiese.

«Far che cosa?»

«Portare quello».

«Quello», per Harker fu facile intuirlo, era McLaren. D’improvviso, fu gelidamente consapevole dell’abisso che li separava… e che nessuna dose di spiegazioni, per quanto abbondante, sarebbe riuscita a colmare. «È un mio caro amico. È un… Devo farlo».

Lei studiò i suoi pensieri, poi scosse il capo. «Non capisco. È guasto…»

L’immagine, nella sua mente, era una combinazione di «rotto», «finito» e «inutile».

«… portarselo dietro?»

«McLaren non è un "quello". È un uomo come me… un amico. È ferito, e devo aiutarlo».

«Non capisco». La sua scrollata di spalle fu fin troppo eloquente, l’ovvio giudizio che lui era un pazzo, e che non valeva la pena dedicargli altro tempo. La ragazza ricominciò ad avanzare senza prestar più nessuna attenzione agli appelli di Harker, che le chiedeva di aspettarlo. Per forza di cose, Harker si caricò nuovamente del peso di McLaren e la seguì barcollando. Desiderò ardentemente che Sim fosse là, e subito desiderò di non aver pensato a Sim. Si augurò che Sim fosse morto in fretta prima di… prima di che cosa? Oh Dio, è buio e ho paura e il mio stomaco è diventato acqua fredda e quella creatura che trotterella davanti a me, in mezzo a questa foschia azzurra…

Tuttavia, quella creatura era molto bella. Uno splendido, affascinante profilo, uno snello, curvo luccichio fatto d’impalpabile chiaro di luna, il calice d’un fiore esotico contenente il nettare mistico e profumato dell’irreale, l’ignoto, l’inesplorato… Suo malgrado, Harker sentì il sangue pulsargli d’una profonda eccitazione.

Giunsero infine sotto le ombre fragranti degli alberi. La foresta non era un groviglio impraticabile, ma aveva abbondanti radure e crinali coperti di muschio. Non c’era sottobosco, né arbusti, né macchie di felci, ma soltanto distese fiorite. La ragazza si fermò e protese una mano verso l’alto. Un ramo piumato, lassù, fuori della sua portata, si piegò e le sfiorò il viso, la ragazza ne colse un grande germoglio pallido e se l’infilò tra i capelli.

Si voltò e sorrise ad Harker. Questi cominciò a tremare, in parte per la stanchezza, in parte per qualcos’altro.

«Come puoi farlo?» le chiese.

Lei lo fissò perplessa. «Vuoi dire il ramo? Oh, quello!» Rise. Era il primo, vero suono che l’udiva emettere, e gli parve d’essere trapassato da uno spruzzo di mercurio bollente. «Mi basta pensare che mi piacerebbe un fiore… e il fiore viene».

Teletrasporto, psicocinesi… come lo definivano nei libri? Sulla Terra ne sapevano qualcosa, ma la colonia non aveva avuto neppure il tempo di compulsare la sua povera biblioteca. C’era stata qualche setta religiosa che riusciva a far chinare le rose che reggevano in mano. L’antica saggezza, la misteriosa forza dietro i miracoli biblici… niente più che il pensiero, l’infinito potere del pensiero. Molto semplice. Già. Harker si chiese a disagio se la ragazza potesse usarlo anche su di lui. Ma anche lui aveva un proprio cervello. O no?

«Qual è il tuo nome?» le chiese.

Lei produsse un limpido trillo. Harker cercò d’imitarlo fischiando, ma subito ci rinunciò. Una specie di linguaggio tonale, pensò, privo di parole… o almeno, di parole come lui le intendeva. Pareva che lei, la sua gente — qualunque cosa fossero — avessero copiato gli uccelli.

«Ti chiamerò Fiordaliso» le disse. «Sì… Fiordaliso. Ma tu non sai cosa vuol dire».

Lei colse l’immagine nella sua mente e gliela rinviò. Fiori dai petali azzurri che occhieggiavano dalla fruttiera di porcellana di sua madre. La ragazza tornò a ridere, mandò via gli uccelli neri e s’inoltrò tra gli alberi facendogli strada, riempiendo l’aria di trilli come un rigogolo. Altre voci le risposero e poco dopo, correndo come la brezza fra gli alberi, arrivò la sua gente.

Erano tutti come lei. C’erano maschi… esili creature simili a ragazzini… e ragazze come Fiordaliso. Erano molte centinaia, tutti nudi, tutti che ridevano incuriositi, i loro corpi flessuosi che guizzavano come farfalle fra le ombre color indaco. Erano coronati di petali — così li chiamava Harker, anche se non sapeva, in realtà, cosa fossero — di tutti i colori, dallo scarlatto al bianco più puro.

Vi fu un lungo incrociarsi di trilli. A quanto pareva Fiordaliso stava raccontando come aveva trovato Harker e McLaren. Tutta quella folla avanzò lenta attraverso la foresta fino ad arrivare a un vasto spiazzo aperto cosparso di pochi alberi qua e là. Una sorgente formava un laghetto, dal quale usciva un ruscello che si perdeva fra la vegetazione.

Continuava ad arrivare altra gente del piccolo popolo; ora Harker vide finalmente i più giovani: dalle creature più minuscole e sottili, via via attraverso le varie fasi dello sviluppo, erano repliche in minor formato degli adulti. Non c’erano vecchi. Non c’era nessuno che avesse un corpo imperfetto, o ferito. Harker, esausto e sull’orlo di un attacco di febbre, provò un profondo scoramento davanti a tanta fragile bellezza.

Mise giù McLaren accanto alla sorgente. Bevve, ansando come un animale, e si rinfrescò la testa e le spalle. Il popolo della foresta si era disposto in cerchio tutt’intorno ad osservarlo. Adesso erano silenziosi. Harker si sentì rozzo e bestiale, in un certo senso quasi come se avesse ruttato sonoramente in una chiesa.

Si occupò di McLaren. Lo lavò, lo aiutò a bere, e si diede da fare per curargli la gamba ferita. Ma avrebbe avuto bisogno di luce, d’un fuoco.

C’erano foglie secche, lì intorno, e zolle di muschio morto. Ne raccolse abbastanza, fra le rocce intorno alla sorgente, e le ammucchiò. La gente della foresta l’osservava. Harker cominciò a sentirsi innervosito per tutti quegli sguardi luminescenti puntati verso di lui. Le mani presero a tremargli al punto che dovette ricominciare per ben quattro volte con la selce e l’acciarino prima di ottenere una scintilla.

Già quel minuscolo guizzo produsse un’intensa agitazione tra le file silenziose degli astanti. Harker ci soffiò sopra. Le fiamme si levarono, dapprima piccole e pallide, poi presero vigore, crebbero e crepitarono. Harker vide i loro volti all’improvviso sfavillio luminoso, i loro occhi spalancati per il terrore. Uno strillo acuto eruppe dalle loro gole, e poi fuggirono tutti come foglie frusciami, sospinte dal vento.

Harker estrasse il coltello. Un profondo silenzio era calato sulla foresta. C’era silenzio… ma non tranquillità. Harker sentì la pelle accapponarglisi sulla schiena, mentre i capélli gli si rizzarono in testa. Sentì la gola secca. Passò la lama tra le fiamme. McLaren alzò lo sguardo su di lui. Harker gli disse: «Va tutto bene, Rory». E gli vibrò un pugno sulla punta del mento. McLaren si rovesciò all’indietro, immobile. Harker gli afferrò la gamba gonfia, gliela distese, e si mise al lavoro.

Era di nuovo l’alba. Harker giaceva accanto alla sorgente, in mezzo all’erba fresca, le ceneri del fuoco erano grige e morte lì accanto alle chiazze più scure della vegetazione. Si sentiva riposato, i nervi distesi, e sembrava che la paura l’avesse lasciato. L’aria era inebriante come vino.

Si girò sulla schiena. Soffiava un vento forte e vivificante, ricco d’aromi. Gli alberi ondeggiavano vivaci, sembravano quasi urlare di piacere. Harker inspirò profondamente. L’odore, quella sensazione di purezza, di pulizia…

D’improvviso si rese conto che le nubi erano alte, più alte di quanto le avesse mai viste prima d’ora. Il vento le sospingeva tutte d’un lato, e la luce del giorno era luminosa, tanto luminosa che…