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Harker balzò in piedi. Il sangue gli tumultuava nelle vene. Avverti un bruciore negli occhi, un intenso pizzichio. Cominciò a correre verso un alto albero, fece un salto aggrappandosi ai rami più bassi, poi prese ad arrampicarsi spericolatamente fino alla cima ondeggiante. La conca della valle si stese sotto di lui, verde, rigogliosa… affascinante. Le grige rocce di granito s’innalzarono intorno ad essa, crescevano sempre più imponenti contro il cielo nella direzione verso la quale il vento soffiava. Erano molto alte ma al di là, molto al di là di esse, torreggiavano montagne colossali.

E su queste montagne, attraverso gli squarci delle nubi sferzate dal vento, si stendeva una coltre nevosa, gelida e bianca, d’una purezza accecante, e mentre Harker aguzzava gli occhi, colse un brillio, così rapido e fuggevole che lo intuì più che altro col cuore… La luce del sole. Campi di neve e, sopra di essi, il sole…

Molto tempo dopo, tornò a calarsi nel silenzio della radura. E restò immobile, gli occhi fissi su ciò che, prima, non aveva fatto in tempo a vedere.

Rory McLaren non c’era più, e non c’erano più neppure gli zaini, col cibo, le corde da scalata, le bende, la selce e l’acciarino. Neppure le corte lance c’erano più. Harker si tastò istintivamente il fianco, e non vi trovò niente, soltanto la carne nuda. Il coltello, perfino il perizoma gli erano stati tolti.

Un corpo snello, delizioso, avanzò fuori dall’ombra degli alberi. Grandi boccioli bianchi spiccavano sui riccioli azzurri che le coronavano la testa. Occhi luminosi fissarono Harker, pieni d’una vibrazione sottile e d’una ironia appena accennata.

Fiordaliso sorrise.

Matt Harker s’incamminò verso Fiordaliso, senza affrettarsi, i muscoli del viso induriti, cancellando ogni espressione. Cercò di mantenere sgombro anche il cervello. «Dov’è l’altro, il mio amico?»

«Nel luogo del termine». Gli indicò con un vago cenno del capo i dirupi intorno al punto dove lui e McLaren erano emersi dalla galleria. Colse l’immagine mentale di qualcosa d’intermedio fra un mucchio di spazzatura e un cimitero, in una sorta di traduzione approssimativa che riuscì a fare nei concetti terrestri. Colse anche una totale noncuranza e anche un po’ di fastidio per il tempo perso in una simile sciocchezza.

«L’avete… è ancora vivo?»

«Lo era quando l’abbiamo messo là. Tutto andrà bene, aspetterà fino a quando non si… fermerà. Come tutti».

«Perché è stato spostato? Perché avete…»

«Era brutto». Fiordaliso scrollò le spalle. «In ogni caso era rotto». Protese le braccia in alto e alto il viso al vento. Un brivido deliziato la percorse. Tornò a sorridere ad Harker, in tralice.

Lui cercò di dominare la rabbia, di tenerla nascosta. Si avviò, con volto sempre privo d’espressione, verso i dirupi. Passò accanto a un cespuglio dai fiori gialli e i rami spinosi e flessibili. D’un tratto la pianta si contorse e lo sferzò sul ventre. Harker si arrestò di botto, piegandosi in due. E udì la risata di Fiordaliso.

Quando si raddrizzò, la ragazza era davanti a lui. «È rosso», lei fece, sorpresa, e appoggiò le sue dita sottili e appuntite sui graffi lasciati dalle spine. Pareva eccitata, e affascinata, dal colore e dal tocco del sangue. Le sue dita si mossero, saggiando la forma dei suoi muscoli, la trama della sua pelle e la peluria scura sul suo petto. Le dita tracciarono piccole linee di fuoco lungo il suo collo, la sporgenza delle sue mascelle… gli toccarono i lineamenti, uno ad uno, le palpebre, le nere sopracciglia.

«Cosa sei?» gli bisbigliò con la mente.

«Questo». Harker la cinse, lentamente, con le braccia. La pelle di lei era liscia, e stranamente gelida, sotto le sue mani, facendogli provare un brivido indescrivibile, in parte di piacere, in parte di ripugnanza. Piegò la testa. Gli occhi di lei s’incupirono, laghi di fuoco azzurro, poi Harker trovò le sue labbra. Erano fredde e strane come il resto di lei, cedevoli, come il resto del suo corpo, odoranti di spezie, lo stesso profumo che esalò, con improvvisa, sopraffacente dolcezza, dai suoi petali ricciuti.

Harker colse un movimento tra gli squarci della foresta, un assieparsi di corolle dai vivaci colori. Fiordaliso si tirò indietro. Gli prese la mano e lo condusse via, verso il ruscello e le macchie di felci che lo bordavano. Alzando lo sguardo, Harker vide che i due uccelli neri avevano ripreso a seguirli, alti nel cielo.

«Ma allora in realtà siete piante? Fiori come questi?» Toccò i bianchi boccioli sopra la sua testa.

«Allora in realtà tu sei una bestia? Come le creature pelose e ringhianti che a volte si arrampicano su dal passo?»

Scoppiarono a ridere tutti e due. Il cielo sopra di loro aveva il colore di un vello soffice e perlaceo. Il terreno era tiepido e le felci cedevano elastiche sotto i loro piedi. «Quale passo?» chiese Harker.

«Laggiù». Lei gliel’indicò verso il confine roccioso della valle. «Scende giù fino al mare, credo. Molto tempo fa andavamo anche noi fin laggiù, ma in realtà non era necessario… e le bestie lo rendono pericoloso».

«Davvero», disse Harker, e la baciò nel cavo sotto il mento. «Cosa succede quando vengono le bestie?»

Fiordaliso scoppiò a ridere. Prima che potesse muoversi, Harker si trovò saldamente intrappolato in un groviglio di rampicanti e di robuste fronde di felci, e gli uccelli neri si precipitarono giù stridendo e fecero roteare i loro becchi taglienti a pochi centimetri dal suo viso.

«Ecco cosa succede», disse Fiordaliso. Accarezzò le felci. «I nostri cugini ci capiscono ancora meglio degli uccelli».

Harker giacque a terra, ansante e intriso di sudore, anche dopo essere stato liberato. Alla fine disse: «Quelle creature del lago sotterraneo… sono anch’essi vostri cugini?»

Il pensiero di Fiordaliso, pieno di paura, si scontrò con la sua mente come un paio di mani che cercassero di spingersi affannosamente lontano. «No, non… La leggenda dice che molto, molto tempo fa tutta questa valle era un immenso lago e i nuotatori ci vivevano dentro. Erano d’una specie completamente diversa dalla nostra. Noi siamo venuti dalle alte gole, dove adesso vi sono soltanto rocce spoglie. Questo è stato molto tempo fa. Man mano il lago si ritirava, siamo diventati sempre più numerosi e abbiamo cominciato a scendere verso il basso, alla fine ci fu una battaglia e i nuotatori furono cacciati oltre la cascata, dentro il lago nero. Hanno tentato molte volte di uscire, di tornare alla luce, ma non hanno potuto. Alle volte mandano fuori i loro pensieri verso di noi. Loro…» S’interruppe. «Non voglio più parlare di loro».

«Come potreste combattere contro di loro, se dovessero uscire?» le chiese Harker, sbrigativo. «Soltanto con gli uccelli e le creature che crescono dal suolo?»

Fiordaliso tardò alquanto a rispondere. Poi disse: «Ti farò vedere un modo». Gli appoggiò le mani sugli occhi. Per un attimo ci fu soltanto buio. Poi cominciò a prender forma un’immagine… gente, la gente di Harker, vista come un riflesso su uno specchio opaco e distorto, ma riconoscibile. Si riversarono dentro la valle attraverso una fenditura tra i dirupi, e subito ogni cespuglio, ogni albero, ogni singolo filo d’erba si scatenavano contro di loro. Essi combattevano selvaggiamente coi loro coltelli, riuscendo ad avanzare, ma lentamente. E poi attraverso il pianoro venne avanti una nebbia leggera, ma morbida e compatta.

Si fece più vicina, avanzando per forza propria, sfidando il vento contrario. Harker vide che si trattava d’una infinità di pappi, semi portati da seriche ali. La nube si distese sopra la gente intrappolata tra i cespugli. Era una marea interminabile e lenta che li coprì tutti d’una sottile lanugine. Gli uomini cominciarono a contorcersi e ad urlare per il dolore, in preda a una terribile paura. Si dibattevano, ma non riuscivano a fuggire.

La lanugine bianca cadde giù dai loro corpi, i quali rivelarono adesso di esser coperti da minuscole, innumerevoli punture verdi, attraverso le quali venivano risucchiate le sostanze chimiche dalla carne viva… I semi lì conficcati cominciavano già a crescere.