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I due ragazzi ubbidirono e portarono il cilindro ai piedi della rampa. Poi lo legarono con corde e lo sollevarono fino al ponte superiore senza fatica, dato il campo gravitazionale molto ridotto. Poi si affrettarono a portarlo a bordo della Space Angel dove lo consegnarono alla comandante; poco dopo, Finn e Achmed ne portarono un altro.

Continuarono a esplorare la nave aliena per qualche giorno registrando tutto quello che vedevano e prendendo qualche souvenir qua e là; oggetti piccoli date le ridotte dimensioni dei loro alloggi sulla Space Angel. Sfera non trovò niente di interessante nei banchi di memorie della nave, ma li informò che i suoi costruttori erano partiti alla ricerca di un nuovo pianeta dove sistemarsi perché il loro sole stava per esplodere. Il relitto faceva parte di una flotta di migliaia di navi identiche.

La seconda nave era diversa. — Cos’è questa cosa, comandante, un palazzo volante? — chiese Torwald riprendendo con la telecamera le torri e le guglie che lo circondavano.

— Sta a voi scoprirlo, Tor.

Si trovavano al centro di quella che pareva una piazza, circondata da torri, cupole, tetraedri e strutture di ogni forma e dimensione della geometria solida. Un campo gravitazionale funzionava ancora in piena efficienza dando così agli esploratori la sensazione di trovarsi in qualche sconosciuto luogo della Terra. Erano al centro della nave piatta, dove un ammasso di strutture torreggiava per diversi chilometri. Oltre l’ammasso centrale era visibile lo scafo della nave a fuso che si era incastrata vicino alla poppa.

— Il complesso centrale mi pare il punto migliore da cui iniziare l’esplorazione disse la comandante. — Procedete.

Iniziarono il lungo tragitto verso il centro della nave, lasciando l’impronta della suola degli stivali nella polvere che la forza di gravità della nave aveva attratto nel corso di migliaia d’anni. Oltrepassarono quelli che si sarebbero detti parchi e giardini, ormai ridotti in polvere anch’essi.

Di tanto in tanto s’imbattevano in sculture, ma si trattava per lo più di opere astratte che non suggerivano alcuna idea sull’aspetto degli antichi abitanti della nave. A intervalli regolari incontravano grandi strutture scheletriche che parevano basamenti, ma non reggevano niente. Fra le varie ipotesi sull’uso di quelle strutture prevalse quella di Torwald: — Secondo me sono supporti per scialuppe di salvataggio. Passeggeri ed equipaggio devono avere avuto il tempo di mettersi in salvo prima che l’altra nave la speronasse. Ecco perché sono tutte vuote.

— Credo che tu abbia ragione — disse la comandante — ma se le cose stanno così devono aver lasciato a bordo molta roba. Su una scialuppa si può portare solo lo stretto necessario... ma lì cos’è rimasto?

Poco oltre c’era un’altra statua, su un piedestallo. Questa volta la scultura non era astratta, ma la realistica rappresentazione di un essere che all’apparenza poteva sembrare umano, anche se aveva braccia e gambe molto lunghe e il corpo eccessivamente sottile. Le mani avevano sei dita, la testa era quasi umana, solo che gli occhi erano rettangolari, il naso era costituito da due sottili fessure verticali e la bocca, larga e priva di labbra, era atteggiata a un sorriso. Sul piedestallo c’era un’iscrizione.

— Ecco com’erano — disse Torwald. — Molto meglio di quelle ostriche giganti dell’altra nave.

Il primo edificio del gruppo centrale si trovava poco oltre quella statua. Il portone era chiuso da una serratura a scatto che fu facile aprire e dava in un compartimento stagno. Superato anche il portello interno si trovarono in un ambiente dotato di atmosfera.

— Analisi — chiese la comandante.

— Respirabile — rispose Michelle. — Pressione leggermente inferiore a quella cui siamo abituati, ma più che tollerabile. Tutto regolare, niente di nocivo.

— Bene, toglietevi i caschi — ordinò la comandante — ma siate pronti a rimetterveli al primo sintomo di malessere.

L’aria era fresca e inodore. Stavano cominciando a congratularsi per tanta fortuna, quando una porta davanti a loro si aprì silenziosamente scivolando di lato, facendoli ammutolire per lo stupore.

Mentre nell’altra nave tutto era funzionale e dotato solo del necessario, in questa era l’opposto. Il primo locale era interamente tappezzato di una stoffa ormai polverosa, ricamata a stelle e fiori stilizzati. Vasi e caraffe, cuscini e strani mobili alti e sottili gareggiavano in eleganza con le sculture e i ninnoli. Era tutto così raffinato ed elegante che riusciva difficile distinguere quali oggetti erano funzionali e quali decorativi. C’era un po’ di disordine e qualche oggetto era rotto, ma non trovarono la rovina che si erano aspettati.

— Dovevano disporre di qualcosa di più potente di un campo gravitazionale — disse la comandante. — L’impatto dell’altra nave avrebbe dovuto provocare una distruzione totale.

La stanza successiva aveva le pareti coperte di affreschi che rappresentavano i sottili umanoidi occupati in svariate attività, per lo più incomprensibili. Ovunque c’erano sculture di metallo, di cristallo, di pietra, alcune mobili, altre no, alcune che proiettavano strane luci colorate, e altre che cantavano fra loro melodie su una scala musicale sconosciuta. In un’altra stanza c’erano grandi bacili e ciotole a forma di conchiglie che cominciarono a riempirsi non appena loro entrarono. Luci multicolori danzavano nel liquido che rimandava riflessi scintillanti dalle sculture appese sopra. Sergei cercò di analizzare uno dei liquidi con i suoi strumenti.

— In massima parte è composto di acqua — riferì, — ma vi sono mescolati acidi, zuccheri e carboidrati. A occhio e croce direi che si tratta di vino.

— Ma vi rendete conto? —esclamò Torwald. — Questo è il sogno di uno spaziale: il paradiso dell’edonista alla deriva nel cosmo!

— Chissà se quegli alieni erano abituati a vivere in mezzo a tutte queste meraviglie o se questa era una nave da crociera di lusso? — si chiese Finn.

Si voltarono tutti di scatto quando alle loro spalle si aprirono alcune porticine ed entrarono nel locale alcune macchine che si muovevano su ruote. Le macchine li ignorarono e si diressero verso le fontane. Alcune estrassero automaticamente dei vassoi con bicchieri di cristallo che cominciarono a riempire con un sifone.

— Erano dei pigri! — esclamò Michelle. — Non si riempivano neanche il bicchiere da soli.

— Però erano tecnici abilissimi — osservò la comandante. — Andiamo a cercare la sala comando. Là dovrebbero esserci le registrazioni e i banchi delle memorie.

Si avviò seguita dagli altri orizzontandosi col suo indicatore direzionale. Attraversarono così altre tre stanze, per poi fermarsi di colpo. La quarta era una sala da banchetti con file di tavoli bassi circondati da cuscini. I tavoli erano apparecchiati e piccoli robot si davano da fare per servire piatti e versare bibite. Tutti annusarono.

— L’odore è buono — disse Kelly, tentato. Da molto tempo, infatti, l’equipaggio della Space Angel seguiva una dieta a base di surgelati e disidratati.

— Fermo! — intimò la comandante. — Nessuno tocchi niente finché Michelle non avrà analizzato quei cibi. Il fatto che sembrino appetitosi non significa necessariamente che non siano nocivi.

— A noi non faranno certo male — osservò caustico K’Stin.

— Voi due digerireste anche una statua. Avanti, assaggiate.

I Viver cominciarono a divorare il contenuto di vari piatti. Per costituzione potevano resistere a lunghi digiuni, ma all’occorrenza erano in grado di ingurgitare quantità incredibili di cibo, che poi immagazzinavano nelle cavità addominali.

— Capisco il metallo e la plastica — osservò intanto Finn — ma come possono avere resistito così a lungo i generi commestibili? Dall’accumulo di polvere cosmica direi che questa nave è abbandonata da millenni.