Scesero e s’incamminarono verso la meta. Parte della muratura aveva ceduto e così dovettero aprirsi ancora una volta un varco nella giungla. Tuttavia ebbero la consolazione di trovare molti sentieri già aperti, anche se le zone di vegetazione folta erano frequenti e dovevano lavorare di machete. Senza i Viver quel lavoro fu molto lento e faticoso. Prima se ne incaricarono Tor e Finn, poi Nancy e Kelly. Tor insegnò a tutti il modo migliore di usare il machete, ma il lavoro fu lo stesso estenuante. Prima fecero dei turni di mezz’ora, poi di venti minuti e infine nessuno riuscì a resistere per più di dieci minuti.
A mattino inoltrato, Tor decise di fare una sosta in una piccola radura. — Ci riposeremo qui per un’ora — disse. — Ormai siamo quasi arrivati, e mi sembra inutile ammazzarci di fatica.
Si lasciarono cadere a terra e subito trassero dallo zaino le borracce. Bevvero alternando i sorsi a pastiglie di sale per compensare la perdita di liquidi e sali dovuta all’eccessiva traspirazione.
— Bella squadra d’intrepidi esploratori — commentò Finn ironicamente osservando i compagni esausti. — Colombo o Amundsen avevano degli uomini così fiacchi? E Cortez cosa avrebbe fatto con mollaccioni come noi? Se mai torneremo, chi crederà che siamo stati in un posto come questo? Che abbiamo visto cose strane e meravigliose? Non c’è un solo vero esploratore fra noi.
— Dovranno crederci — rispose Torwald — con tutte le riprese che abbiamo fatto. Inoltre, se è vero quello che ho letto, gli esploratori, in genere, sono esseri fuori del comune, degli emarginati, disadattati alla ricerca di un posto adatto a loro.
— Proprio come noi — commentò Nancy.
Omero, che riposava con le sue molteplici gambe ripiegate sotto il corpo, improvvisamente scattò in tutta la sua statura di settanta centimetri, con le antenne puntate verso la loro destinazione. — Sento dei rumori... Non sono animali... È certamente un’attività organizzata.
— Be’, sapevamo già che questo pianeta era abitato da esseri intelligenti — ribatté Torwald. — Abbiamo visto fumo e luci, e qualcuno ha rapito Lafayette.
— Sono rumori di discordia — precisò Omero nel suo linguaggio forbito.
— Una battaglia? — suggerì Kelly. — Forse due villaggi si stanno facendo guerra.
— Non credo. C’è dolore, e angoscia, e qualcosa che non riesco a definire.
— Be’, andiamo a dare un’occhiata più da vicino — propose Tor. — In piedi. E mi raccomando di fare il meno rumore possibile!
Raccolsero armi e zaini, e ripresero la traversata della giungla, aggirando i punti più fitti, invece che aprirsi la strada coi machete. Poco dopo si trovarono ai margini di una zona diboscata divisa in campi su cui crescevano alti steli bruni. Li aggirarono, restando fra gli alberi, e prima di raggiungere la piattaforma scorsero i primi indigeni.
Erano una ventina, intenti al lavoro dei campi. Alti, ossuti, avevano l’epidermide di un verde opaco a scaglie articolate. Dal collo in giù avevano una certa somiglianza coi Viver, ma la testa era come quella delle formiche, col cranio a doppia cupola diviso al centro da una profonda scissura, su cui cresceva una cresta rigida. Avevano quattro occhi, proprio come le maschere della piramide.
— Adesso sappiamo chi ha costruito le città — disse Finn. — Tecnologicamente parlando sembra che siano gli epigoni di una civiltà decadente. Gli arnesi e gli utensili che stanno usando sono di pietra.
— Non possiamo esserne certi — bisbigliò Nancy. — Chi costruì le città può avere ritratto uno dei loro dèi o demoni con le fattezze di questa gente. Tu cosa ne pensi, Tor?
— Non credo che questo sia il momento più opportuno per dissertazioni accademiche. Muoviamoci. Diamo un’occhiata al posto, cerchiamo di scoprire dov’è Lafayette e poi torniamo.
Oltrepassarono i campi senza essere visti e ben presto arrivarono in vista di un villaggio costruito contro uno dei lati della grande piattaforma di pietra. Scesero in un profondo fossato e avanzarono al riparo dei folti canneti, fino ad avvicinarsi abbastanza da potere osservare da vicino il villaggio, composto da un centinaio di capanne di canne su palafitte, col tetto di grandi foglie. Parte degli abitanti lavorava sotto la sorveglianza di alcuni guardiani, che appartenevano a una razza diversa. Avevano teste grosse con viso prognato, quasi quadrato, fornito di denti aguzzi. Sopra il grugno c’erano tre occhi, uno al centro e gli altri ai lati. Dalla parte superiore del torso spuntavano quattro braccia, le prime tozze e muscolose, le altre sottili e più lunghe. I piedi somigliavano alle zampe delle aquile, ma, al centro, nella parte inferiore, c’era una specie di cuscinetto che serviva per camminare. Avevano anche lunghe code prensili. Ma la cosa più inquietante erano le loro armi, per niente primitive e dall’aria micidiale. Reggevano con le braccia superiori una specie di fucile e dalle bandoliere che s’incrociavano sul torso nudo pendevano altre armi più piccole. Molti portavano anche spade, coltelli e mazze.
— Omero — sussurrò Torwald — conosci quelle bellezze?
— Certamente. Sono Tchork. Hanno un impero che si estende su un migliaio di mondi, e seguono una politica di saccheggio e di schiavismo. Appena hanno depredato tutte le ricchezze trasportabili di un pianeta, lo abbandonano, per poi tornare quando le risorse sono di nuovo appetibili. Sono una razza selvaggia che è riuscita a dominare lo spazio proponendosi come mercenari disponibili per le guerre di popolazioni più civilizzate. Una volta assunti, si ammutinavano, rubavano le navi su cui prestavano servizio e si mettevano in affari per conto proprio.
Proprio il tipo di gente giusta da incrociare con la nave in disarmo — sospirò Tor. — Cosa credi che stiano facendo, qui?
— Pare che stiano razziando quella città — disse Finn. — Mi pare logico, dal momento che anche noi ieri avevamo pensato di farlo.
Dal punto in cui si trovavano potevano vedere un primitivo insieme di scale e piattaforme a zigzag che salivano dal villaggio alla piattaforma oltre a due file di indigeni, una che saliva e l’altra che scendeva. Quelli che salivano portavano ceste vuote, mentre le ceste dell’altra fila erano piene. Una volta scesi, gli indigeni rovesciavano il contenuto delle ceste su un mucchio al centro del villaggio. Uno dei Tchork controllava quello che portavano. Il mucchio era formato da oggetti di metallo,gemme e altri oggetti non identificabili a quella distanza.
Un indigeno barcollò sotto il peso della cesta, rovesciando parte del contenuto. Il Tchork emise una serie di strilli simili a latrati e gli diede uno schiaffo così forte che per poco non lo fece cadere. L’antropoide fece per protestare ma il Tchork sguainò una spada e gli troncò di netto la testa. Poi rinfoderò la spada, allontanò con un calcio la testa recisa e tornò al suo lavoro.
— Carino! — commentò Torwald. Nancy e Kelly erano impalliditi.
— Io direi di andarcene di qui al più presto — suggerì Finn. — Sono perfettamente d’accordo — disse Torwald. — Mi raccomando sempre di non fare rumore. Torniamo seguendo la stessa strada dell’andata. Tenetevi bassi e se vedete o sentite qualcosa non ditelo, ma fate un cenno con la mano. Manteniamoci a intervalli di cinque metri.
Si ritirarono lentamente, con le spalle e le ginocchia piegate, e quella sgradevole sensazione che si prova quando ci si lascia un nemico alle spalle. Quando arrivarono ai margini della giungla Torwald ordinò di fermarsi. Prese il comunicatore e trasmise un segnale di pericolo.
— Non mi piace farlo — spiegò ai compagni — ma bisogna avvertire quelli della nave nel caso che noi non riuscissimo a tornare. Subito dopo arrivò la risposta della comandante. — Sì, cosa succede? E poi Ham: — Torwald, siete in difficoltà?
— Comandante — disse Torwald — tenetevi pronti a decollare appena vi avverto, anche se le riparazioni non sono ultimate. Abbiamo incontrato molti brutti ceffi.