Gustiv Bannerd, seduto in un angolo della stanza, le lunghe gambe incrociate, buttò giù alcuni rapidi appunti e chiese: «Non le dispiace se registro tutto quello che vien detto?»
Il cefeide non-umano fissò per un attimo il giornalista: «Non ho nessuna obiezione».
Antyok, sempre con l’aria di volersi scusare di chissà quale torto, insisté: «Questo non è un puro incontro di cortesia, signore. Non l’avremmo certo costretta a sopportare tanto disagio per una cosa del genere. Vi sono importanti questioni da discutere e lei è il capo del suo popolo».
Il cefeide annui: «La vostra gentilezza è quanto di meglio io possa desiderare. Prego, procedete».
L’amministratore quasi si contorse per la difficoltà che trovò a dar corpo ai propri pensieri: «È una questione delicata», cominciò. «E mai mi sarei permesso di sollevarla se non fosse per la grande importanza del… uh… del problema. Io sono soltanto il portavoce del mio governo…»
«Il mio popolo giudica oltremodo benevolo il governo del vostro mondo».
«Uhm, sì, siamo gentili. E proprio per questo il mio governo è assai turbato perché il suo popolo non genera più».
Antyok fece una pausa, e attese, angosciato, una reazione… che non ci fu. Il volto del cefeide era immobile, salvo per il lieve pulsare del raggrinzimento sopra la sua bocca che era il tubo retrattile, ora sgonfio.
Antyok riprese: «È una domanda che abbiamo esitato a farle a causa della sua natura estremamente personale. Il principio della non-interferenza ispira ogni atto del mio governo, e noi abbiamo fatto del nostro meglio per indagare sul problema con estrema circospezione, senza turbare la sua gente. Ma, ad esser franchi, noi…»
«Avete fallito?» concluse per lui il cefeide.
«Sì. O quanto meno non abbiamo scoperto nessun apprezzabile errore nella scrupolosa riproduzione dell’ambiente del vostro mondo originario, naturalmente con le modifiche indispensabili a renderlo più abitabile. Ora, ci siamo convinti che debbano esserci delle carenze chimiche, e perciò le chiediamo il suo aiuto… volontario, s’intende. Ma se lei non vuole, se decide di non…»
«No, no, io voglio aiutarvi». Il cefeide pareva assai ben disposto. Sul suo cranio glabro, la pelle continuava a raggrinzirsi e a rilassarsi, la risposta aliena all’emozione di un’altra razza. «Nessuno di noi avrebbe immaginato che si trattasse d’una questione che potesse turbare voi, abitanti d’un altro mondo. Il fatto che siate turbati per noi, è un’ulteriore conferma delle vostre intenzioni gentili. Questo nuovo mondo noi lo troviamo congeniale, un paradiso se confrontato col nostro mondo di un tempo. Non gli manca niente. Le sue condizioni ambientali sono quelle che noi abbiamo sempre ricordato nelle nostre leggende dell’Età dell’Oro».
«Be’…»
«Ma c’è qualcosa… qualcosa che forse voi non siete in grado di capire. Non possiamo aspettarci che intelligenze diverse pensino in maniera uguale».
«Cercherò di capire».
La voce del cefeide si fece più sottile e levigata, quasi liquida: «Sul nostro mondo nativo stavamo morendo, ma lottavamo. La nostra scienza sviluppatasi lungo il corso d’una storia più antica della vostra, era perdente… ma non si dava ancora per sconfitta. Forse perché la nostra scienza era intrinsecamente più biologica che fisica, come invece è la vostra. Il vostro popolo ha scoperto nuove forme di energia e ha raggiunto le stelle. La nostra gente aveva scoperto nuove verità psicologiche e psichiatriche, creando una società libera dalle malattie dal crimine.
«Non è qui il caso di discutere su quale dei due angoli di approccio sia stato più apprezzabile, ma non c’è incertezza su quale si sia dimostrato, alla fine, di maggior successo. Sul nostro mondo morente, pur senza mezzi sufficienti per vivere né fonti d’energia, la nostra scienza biologica poteva soltanto renderci più facile la morte.
«Eppure lottammo. Già da molti secoli stavamo avanzando, brancolando, verso i principi basilari dell’energia atomica, e seppure con gran lentezza avevamo visto baluginare davanti a noi la speranza di riuscire un giorno a infrangere i limiti bidimensionali della nostra superficie planetaria, raggiungendo le stelle. Non c’erano altri pianeti nel nostro sistema solare che potessero servirci da trampolino. Niente, soltanto venti anniluce fino alla stella più vicina… e neppure sapevamo se esistessero altri sistemi planetari, semmai tutto stava a indicare il contrario.
«Ma c’è qualcosa, una scintilla in ogni forma di vita che insiste a lottare perfino quando tutto sembra inutile. Negli ultimi giorni, sul nostro mondo eravamo rimasti soltanto in cinquemila. E la nostra prima nave era pronta: solo un modello sperimentale, probabilmente destinato all’insuccesso. Ma tutti i princìpi della propulsione e della navigazione spaziale erano stati da noi elaborati in modo corretto».
Vi fu una lunga pausa, e i piccoli occhi neri del cefeide fissavano il vuoto, all’inseguimento di quel ricordo.
Il giornalista si fece vivo dal suo angolo: «E poi arrivammo noi?»
«E poi arrivaste voi», annui con semplicità il cefeide. «Questo cambiò tutto. L’energia che ci serviva… non dovevamo far altro che chiederla. Un nuovo mondo, un mondo ideale, perfettamente adatto a noi, fu nostro senza che neppure dovessimo chiederlo. Se noi, da lungo tempo, avevamo risolto da soli i nostri problemi sociali, i nostri più difficili problemi ambientali furono risolti da voi in modo altrettanto completo».
«Allora?» lo sollecitò Antyok.
«Bene… cioè, per qualche motivo non fu un bene. Per secoli i nostri antenati avevano lottato per raggiungere le stelle, e adesso, d’un tratto, scoprivamo che le stelle erano proprietà d’altri. Avevamo lottato per la vita, e questa ci veniva offerta in dono da altri. Non c’era più nessun motivo per lottare. Non c’era più niente a cui mirare. Tutto l’universo è proprietà della vostra specie».
«Questo mondo è vostro», disse Antyok, gentilmente.
«Per compassione… È un dono. Non è nostro di diritto».
«Io credo che ve lo siate guadagnato».
Ora gli occhi del cefeide si appuntarono su di lui: «Le vostre intenzioni sono buone, ma dubito che comprendiate. Non abbiamo nessun posto dove andare, salvo questo mondo donatoci. Siamo in un vicolo cieco. La funzione basilare della vita è la lotta, e questa ci è stata tolta. La vita non ha più interesse per noi. Non abbiamo più figli… di nostra volontà. È il nostro modo di toglierci dalla vostra strada».
Distrattamente Antyok aveva tolto il globo fluorescente dal davanzale della finestra e lo stava facendo roteare sul supporto. La liscia sfera di circa un metro di diametro irradiò luce, mentre sembrava ondeggiare con grazia incongrua, senza peso, a mezz’aria.
Antyok chiese: «È questa la vostra soluzione? La sterilità?»
«Potremmo fuggire ancora», mormorò il cefeide. «Ma dove mai nella Galassia esiste un posto per noi? È tutta vostra».
«Sì, non c’è posto per voi più vicino delle Nubi di Magellano, se desiderate l’indipendenza. Le Nubi di Magellano…»
«E voi non ci lascereste partire. Le vostre intenzioni sono buone, lo so».
«Sì, le nostre intenzioni sono buone… e non potremmo mai lasciarvi andare».
«È una gentilezza… sbagliata».
«Forse. Ma non c’è altro modo di riconciliarvi con voi stessi? Avete tutto un mondo per voi».
«È qualcosa che va più in là delle migliori spiegazioni. La vostra mente è diversa. Non potremmo mai riconciliarci con noi stessi. E io credo, amministratore, che lei abbia già analizzato a fondo ogni aspetto della situazione. Il concetto del vicolo cieco in cui ci troviamo intrappolati non le è nuovo».
Antyok alzò gli occhi, sorpreso. Con una mano arrestò la rotazione del globo fluorescente. «Può leggermi il pensiero?»
«È soltanto una congettura. Anche se buona, credo».