— In che cosa è cambiata la situazione?
Ieri il mio datore di lavoro mi ha pregato di fingermi pazzo per una ragione di ordine pratico. E di fingere proprio il tipo di pazzia di cui sono affetto, se lo sono veramente. Naturalmente, sono disposto ad ammettere la possibilità che io sia pazzo, posso agire soltanto partendo dal presupposto di non esserlo. Voi sapete di essere il dottor Williard E. Irving e potete agire soltanto in base a questa convinzione. Ma come fate a sapere di esserlo veramente? Potrebbe anche darsi che voi foste pazzo, tuttavia potete agire solamente pensando di non esserlo.
— Ritenete che il vostro datore di lavoro abbia ordito una congiura… contro di voi? Credete che qualcuno stia cospirando per rinchiudervi in un ospedale psichiatrico?
— Non so. Ecco che cosa mi capitò ieri pomeriggio. — Inspirò profondamente, poi si tuffò a capofitto nel racconto. Riferì a Irving il suo colloquio della sera prima con Charlie Doerr e il suo strano comportamento nella sala d’aspetto.
— Ecco tutto — disse, quando ebbe finito. Poi fissò la faccia impassibile del medico più con curiosità che con preoccupazione, cercando di leggerci qualcosa, e aggiunse con la massima naturalezza: — Sono certo che non mi credete. Che mi considerate pazzo. — Guardò Irving diritto negli occhi e continuò: — Non avete scelta, a meno che non pensiate che io stia snocciolando tutta una serie di bugie per convincervi che sono malato. Insomma, come scienziato e come psichiatra, non potete neppure lontanamente ammettere la possibilità che le cose di cui io sono convinto (che so con certezza!) siano obiettivamente vere. Non ho ragione?
— Temo di sì. Dunque?
— Dunque andate in fondo e firmate la richiesta di internamento. Io starò al gioco in tutti i particolari; farò firmare il secondo certificato medico dal dottor Ellsworth Joyce Randolph.
— Non solleverete obiezioni?
— Servirebbero a qualcosa, se ne sollevassi?
— Ad una cosa soltanto, signor Vine. Se il paziente è prevenuto nei riguardi di uno psichiatra, è meglio non affidarlo alle cure di quel particolare sanitario. Se voi credete che il dottor Randolph sia implicato in un complotto contro di voi, vi consiglierei di andare da un altro.
— Anche se io scegliessi proprio Randolph? — domandò lui, piano.
Irving agitò una mano, seccato. — Naturalmente, se voi e il signor Doerr preferite.
— Preferiamo.
La testa dai capelli color grigio ferro annuì gravemente.
— Dovete però rendervi conto di una cosa. Se io e Randolph decideremo per il vostro ricovero in una casa di cura, non sarà certo per tenervi sotto sorveglianza speciale, ma per guarirvi con opportune terapie.
Lui annuì. Il medico si alzò. — Scusate un attimo. Faccio una telefonata a Randolph.
Guardò Irving passare in un’altra stanza. Pensò che c’era un telefono anche sulla scrivania, ma che certo non se ne era servito per non lasciargli udire il colloquio.
Rimase lì seduto, in silenzio, finché il medico tornò. — Il dottor Randolph è libero — disse. — Ho chiamato un tassì che ci accompagni al suo studio. Vi spiace se dico due parole anche a vostro cugino?
Lui rimase lì seduto, e non guardò il dottore che lasciava la stanza, dirigendosi verso la sala d’aspetto. Avrebbe potuto cercare di afferrare qualche parola origliando, ma non lo fece. Si accontentò di starsene lì seduto, finché sentì la porta della sala d’aspetto aprirsi alle sue spalle, e la voce di Charlie che lo chiamava: — Vieni, George. Il tassì sarà già arrivato, ormai.
Presero l’ascensore, e quando uscirono trovarono l’auto-pubblica. Il dottor Irving diede l’indirizzo all’autista.
— Bella giornata — disse, quando furono pressappoco a metà del percorso. Charles si schiarì la gola e convenne:
— Bella davvero.
Poi nessuno disse più niente per tutto il resto della corsa.
6
Indossava un paio di pantaloni grigi e una camicia dello stesso colore con il colletto aperto e senza una cravatta che potesse servirgli per impiccarsi. Mancava anche la cintura, per la stessa ragione, ma i calzoni erano stretti in vita e non c’era pericolo che scendessero. Come non c’era pericolo che gli capitasse di cadere da una delle finestre, perché erano tutte munite di sbarre.
Se ne stava lì, appoggiato al muro, a guardare gli altri sette. Era lì da due ore, e gli sembrava da due anni.
Il colloquio col dottor Randolph si era svolto senza difficoltà: era stato praticamente una replica di quello con Irving. Ovviamente, Randolph non aveva mai sentito parlare di lui.
Era quello che lui si aspettava.
Si sentiva calmissimo, ora. Aveva deciso che per un po’ si sarebbe astenuto dal pensare, dal preoccuparsi, perfino dal sentire.
Fece alcuni passi e si avvicinò ai giocatori di scacchi. Era una partita da gente sana, dove venivano rispettate le regole.
Uno degli uomini alzò gli occhi e domandò: — Come vi chiamate? — Era una domanda perfettamente normale; l’unica cosa strana era che lo stesso individuo avesse ripetuto la stessa domanda ben quattro volte da due ore à quella parte.
— George Vine — rispose.
— Io sono Bassington, Ray Bassington. Chiamatemi pure Ray. Siete pazzo voi?
— No.
— Alcuni di noi lo sono, altri no. Lui sì — Guardo l’uomo che stava suonando un pianoforte immaginario. — Sapete giocare a scacchi?
— Non molto bene.
— Capisco. Ceniamo presto, qui. Qualunque cosa vogliate sapere, non avete che da domandarmela.
— Come si fa a uscire di qui? Sentite un po’, non è una battuta di spirito. Dico sul serio. Com’è la procedura?
— Tutti i mesi ci si presenta davanti ad un gruppo di medici dell’ospedale. Quelli fanno alcune domande e decidono se potete andarvene o se dovete restare. A volte vi piantano dentro degli aghi. Come vi hanno classificato?
— Classificato? Che significa?
— Debolezza mentale, psicosi-depressiva, demenza precoce, malinconia involutiva…
— Oh paranoia, credo!
— Male. Allora vi pungono con degli aghi.
Un campanello suonò, chissà dove.
— La cena — disse l’altro giocatore di scacchi. — Mai tentato di suicidarvi? O di ammazzare qualcuno?
— No.
— Allora vi lasceranno mangiare a una tavola A, con coltello e forchetta.
La porta della corsia si aprì, versò l’esterno, e la figura di un infermiere si inquadrò nella soglia. — È ora — disse. Uscirono tutti, tranne l’uomo che se ne stava seduto su una sedia, fissando il vuoto.
— E quello? — chiese a Ray Bassington.
— Salta il pasto, stasera. Psicosi maniaco-depressiva che sta per entrare nella fase malinconica. Gli lasciano saltare un pasto. Se non è in grado di scendere neanche a quello seguente, lo portano giù loro e lo nutrono per forza. Avete una psicosi-depressiva, voi?
— No.
— Be’, siete fortunato. È tremendo, durante le crisi. Ecco, da questa parte.
Era un vasto locale. Tavoli e panche erano affollati di uomini vestiti di grigio, come lui Mentre attraversavano la soglia, un infermiere lo afferrò per un braccio e disse: — Sedete là.
Era proprio accanto alla porta. Un piatto di alluminio pieno di cibo messo lì alla rinfusa, e un cucchiaio. — Non potrei avere coltello e forchetta? — domandò. — Mi hanno detto…
L’infermiere lo mandò avanti con una spinta. — Periodo di osservazione. Sette giorni. Nessuno può avere le posate prima che sia finito il periodo di osservazione. Sedete.
Sedette. Nessuno a quel tavolo aveva le posate. Tutti gli altri stavano già mangiando, alcuni rumorosamente e disordinatamente. Lui tenne gli occhi fissi sul piatto, per quanto il cibo fosse tutt’altro che invitante. Giocherellò col cucchiaio, e riuscì a mandar giù qualche pezzo di patata pescata nella broda dello stufato, e un paio di bocconi di carne legnosa.