Non aveva visto molti esperiani in vita sua, anche se ormai erano piuttosto numerosi. Il definitivo riconoscimento dei loro poteri era avvenuto soltanto il secolo prima, dopo anni di dubbi e di confusione, ma adesso esisteva addirittura un programma procreativo che li costringeva a sposarsi fra di loro. Però, la maggior parte degli esperiani non era in grado di controllare i propri poteri. Inoltre, si trattava per lo più di individui emotivamente instabili che, spesso, in condizioni di stress, rischiavano la pazzia. A Mondschein non piaceva per niente l’idea di essere rinchiuso in una stanza senza finestre con un esperiano pazzo.
E se poi fosse stato anche un tipo cattivo? Che anziché procurargli una semplice amnesia selettiva, decidesse di alterargli completamente la memoria? Magari finiva che…
— Può alzarsi adesso — disse bruscamente l’esperiano. — È tutto finito.
— Che cosa è finito? — domandò Mondschein.
L’esperiano scoppiò in una risata trionfante. — Non c’è bisogno che lei lo sappia. È finito e basta.
Il muro rientrò per la seconda volta e l’esperiano scomparve. Mondschein si alzò. Si domandò dove fosse e che cosa gli fosse accaduto: si sentiva stranamente vuoto. Cercò di ricordare: dunque, stava tornando a casa con la banchina scorrevole, un uomo lo aveva urtato e poi…
Una donna magra, con zigomi assurdi e palpebre fatte di una luccicante lamina di platino, gli disse: — Seguimi, per favore.
— Perché dovrei?
— Fidati di me e seguimi.
Mondschein sospirò e lasciò che la donna lo conducesse lungo uno stretto corridoio, che immetteva in un’altra stanza, dipinta a colori vivaci e ben illuminata. In un angolo c’era una vasca di metallo delle dimensioni di una bara. Mondschein capì subito di che cosa si trattasse. Era una camera di deprivazione sensoriale, una cosiddetta Camera del Nulla, all’interno della quale non esisteva la forza di gravità e, momentaneamente soppresse le facoltà visive e uditive, si galleggiava in un liquido tiepido e nutriente. La Camera del Nulla era uno strumento di rilassamento totale. Ma poteva anche servire a scopi più sinistri: se un uomo vi trascorreva troppo tempo, perdeva forza di volontà, al punto da lasciarsi plagiare e indottrinare con estrema facilità.
— Spogliati ed entra subito dentro — gli ingiunse la donna.
— E se io non volessi?
— Lo farai.
— Quanto dura la seduta?
— Due ore e mezzo.
— Troppo — rispose Mondschein. — Mi dispiace. Non sono così teso. Puoi indicarmi da che parte si esce di qui?
La donna fece un cenno di richiamo. Immediatamente, nella stanza entrò un robot, dipinto di un orribile colore nero opaco e con il naso smussato. Mondschein non aveva mai lottato con un robot e non aveva nessuna intenzione di provarci in quel momento. La donna gli indicò di nuovo la Camera del Nulla.
Dev’essere un sogno, si disse Mondschein. Un bruttissimo sogno.
Cominciò a spogliarsi. Un ronzio segnalò che la Camera era pronta. Mondschein entrò e si lasciò sommergere dal liquido. Non vedeva e non sentiva più nulla. Assorbiva l’ossigeno attraverso un catetere. Nel giro di pochi secondi, scivolò in uno stato di totale passività e di fetale benessere. Il groviglio di ambizioni, conflitti, sogni, colpe, desideri e idee che costituiva la mente di Christopher Mondschein si era temporaneamente dissolto.
Al termine della seduta, l’accolito si destò. Lo aiutarono a uscire dalla vasca — vacillava sulle gambe e dovevano sorreggerlo affinché non cadesse — e gli diedero i suoi vestiti. Notò che la tunica era del colore sbagliato: verde, il colore degli eretici. Come era potuto accadere? Era stato arruolato forzatamente nelle truppe degli armonisti? Si guardò bene dal fare domande. Adesso gli stavano applicando una maschera termoplastica. A quanto pare, viaggerò in incognito.
Dopo poco, Mondschein raggiunse una stazione di barcacelere. quando vide che i cartelli erano scritti in arabo, impallidì. Il Cairo? si domandò. Algeri? Beirut? La Mecca?
Gli avevano prenotato un intero scompartimento. La donna con le palpebre di platino gli tenne compagnia per tutta la durata del volo. Mondschein tentò molte volte di interrogarla, ma a tutte le sue domande lei rispose con una scrollata di spalle.
La barcacelere atterrò a Tarrytown. Finalmente un luogo famigliare. Un indicatore temporale informò Mondschein che erano le 7.05 Ora Media Orientale di mercoledì 13 marzo 2095. Era martedì pomeriggio, lo ricordava distintamente, quando era uscito mogio mogio dal tempio dopo la lavata di capo di Fratello Langholt. Saranno state le 16.30. Quindi, aveva trascorso lontano da casa la notte di martedì e le prime ore della mattina di mercoledì: una quindicina di ore in tutto.
Quando entrarono nella grande sala d’attesa, la donna che lo accompagnava bisbigliò: — Vai in bagno. Terza cabina. Cambiati d’abito.
Profondamente turbato, Mondschein obbedì. Sul sedile del water trovò un pacco. Lo aprì e scoprì che conteneva la sua vecchia veste d’accolito color indaco. Si sfilò rapidamente la tunica verde ed indossò la sua. Poi, ricordatosi della maschera termoplastica, la tolse dal viso, la gettò nel water e fece scorrere l’acqua. Quindi impacchettò la tunica verde e, non sapendo più che cosa fare, uscì dalla cabina.
Mentre si avviava verso la sala d’aspetto, un uomo di mezza età scuro di capelli gli andò incontro porgendogli la mano.
— Accolito Mondschein!
— Sì? — disse Mondschein, senza riconoscerlo, ma stringendogli la mano.
— Ha dormito bene?
— Sì… grazie. Molto bene. — Ci fu uno scambio di sguardi e all’improvviso Mondschein dimenticò perché fosse andato in bagno, che cosa vi avesse fatto; dimenticò perfino di aver indossato una veste verde e una maschera termoplastica, di essere appena arrivato da un paese di lingua araba e di essere uscito soltanto poche ore prima da una Camera del Nulla in cui era entrato controvoglia.
Adesso era convinto di aver trascorso una tranquilla notte a casa sua, nel suo modesto alloggio. Che cosa ci facesse alla stazione di Tarrytown a quell’ora del mattino, non gli era del tutto chiaro, ma si trattava di una questione secondaria, che non meritava ulteriori approfondimenti.
In compenso era incredibilmente affamato. Mondschein scese al piano inferiore e, raggiunta la consolle alimentare, ordinò una robusta colazione. La ingollò con avidità. Alle otto era già alla cappella della Confraternita della Radianza Immanente di Nyack, pronto a prendere parte alla funzione mattutina.
Fratello Langholt lo salutò calorosamente. — Spero che il nostro discorsetto di ieri non ti abbia troppo turbato Mondschein.
— Adesso sono tranquillo.
— Bene, bene. Non devi lasciarti travolgere dalle tue ambizioni. Ogni cosa a suo tempo. Controlla il livello gamma del reattore, per favore.
— Subito, fratello.
Mondschein si avviò verso l’altare. Il fuoco azzurro era come un faro nelle incertezze del mondo. L’accolito estrasse il rivelatore di raggi gamma dalla sua custodia e pose mano alle sue incombenze mattutine.
cinque
La lettera di convocazione a Santa Fe giunse tre settimane più tardi. La notizia cadde sul tempio di Nyack come un fulmine, folgorando schiere di monaci anziani e autorevoli, per raggiungere, infine, l’umile chierico.
Fu uno degli accoliti a comunicargli indirettamente la buona nuova. — Fratello Langholt ti aspetta nel suo ufficio, Chris. C’è il supervisore Kirby insieme a lui.
Mondschein si allarmò. — Che cosa significa? Io non ho fatto niente di male… non che io sappia, almeno.
— Non penso che tu sia nei guai, Chris. Comunque è qualcosa di grosso. Sono tutti sotto sopra. Si tratta di un ordine arrivato da Santa Fe. — Il chierico lo scrutò con curiosità. — Mi sembra di aver sentito dire che verrai spedito laggiù in trasferta.