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— Molto strano — commentò Mondschein.

Si precipitò nell’ufficio di Langholt. Il supervisore Kirby era in piedi accanto alla libreria di sinistra. Assomigliava così tanto a Langholt che si sarebbero potuti scambiare per fratelli. Erano entrambi alti e magri e, oltre all’età, erano entrambi sulla quarantina, avevano in comune l’espressione ascetica del volto.

Era la prima volta che Mondschein vedeva il supervisore così da vicino. Correva voce che prima di convertirsi alla fede vorsteriana, quindici o vent’anni prima, Kirby fosse un alto funzionario delle Nazioni Unite. Adesso era uno dei più alti esponenti della Confraternita, forse uno dei dieci membri più influenti dell’intera organizzazione. Portava i capelli molto corti e i suoi occhi erano di una strana tonalità di verde. Mondschein trovò difficile reggere il suo sguardo. Ora che si trovava di fronte a lui, si domandava dove avesse trovato il coraggio di scrivergli quella dannata lettera. Kirby accennò a un sorriso. — Mondschein?

— Sì, signore.

— Chiamami fratello, Mondschein. Fratello Langholt mi ha parlato molto bene di te.

Davvero? Pensò l’accolito sorpreso.

Langholt disse: — Ho spiegato al Supervisore che sei ambizioso, pieno di vivacità ed entusiasmo. Ma ho anche precisato che possiedi alcune di queste doti un po’ in eccesso. Forse a Santa Fe imparerai la moderazione.

Sbalordito, Mondschein disse: — Fratello Langholt, io credevo che la mia richiesta di trasferimento fosse stata rifiutata.

Kirby annuì. — Sì, ma poi è stata ripresa in considerazione. Vedi, abbiamo bisogno di alcuni soggetti di controllo. Non-esperiani. Abbiamo chiesto al computer di selezionare una decina di accoliti e il computer ha fatto il tuo nome. A quanto pare hai tutti i requisiti necessari. Immagino che tu voglia ancora andare a Santa Fe?

— Certamente, signore… cioè fratello Kirby.

— Bene. Hai una settimana di tempo per sistemare le tue cose qui e fare i bagagli. — A un tratto gli occhi verdi di Kirby divennero penetranti come due lame. — Mi auguro che il tuo contributo agli studi di Santa Fe si riveli realmente utile, fratello Mondschein.

Mondschein non riusciva a capire se fosse stato spedito a Santa Fe, perché alla fine la sua richiesta era stata accolta o perché volevano liberarsi di lui a Nyack. Gli sembrava inspiegabile che Langholt avesse approvato il suo trasferimento dopo aver manifestato, con parole così dure, il suo dissenso solo poche settimane prima. Ma i sommi capi della Confraternita agivano in modo misterioso, si disse Mondschein. Accettò quella strana decisione di buon grado e non fece domande. Alla fine della settimana, si inginocchiò per l’ultima volta davanti all’altare del tempio di Nyack, prese congedo da fratello Langholt e andò alla stazione di barcacelere per imbarcarsi sul volo di mezzogiorno diretto a ovest.

Arrivò a Santa Fe a metà mattina, ora locale. La stazione era gremita di tonache azzurre, più di quante ne avesse mai viste in un luogo pubblico in tutta la sua vita. In attesa che qualcuno lo venisse a prendere, Mondschein osservò intimidito l’immensità del paesaggio del Nuovo Messico. Il cielo era di un azzurro stranamente luminoso e la visibilità sembrava infinita. All’orizzonte, Mondschein scorse il profilo di una catena di montagne di arenaria. La stazione era circondata da un deserto rossastro, punteggiato di cespugli grigio-verdi di artemisia: Mondschein non aveva mai visto uno spazio così vasto in tutta la sua vita.

— Fratello Mondschein? — domandò un chierico piccolo e tozzo.

— Sì, sono io.

— Io sono Fratello Capodimonte. Sono il tuo accompagnatore. Hai ritirato il tuo bagaglio? Perfetto. Allora, andiamo.

Sul retro della stazione era parcheggiata una lacrima. Capodimonte prese la valigia di Mondschein e la sistemò nel portabagagli. Doveva avere una quarantina d’anni, pensò Mondschein. Un po’ vecchiotto per essere un accolito. Dal collare, sulla nuca, sporgeva un plico di grasso.

Salirono a bordo. Capodimonte accese il motore e la lacrima partì come un razzo.

— È la prima volta che vieni da queste parti?

— Sì — rispose Mondschein. — Sono rimasto molto colpito dal paesaggio.

— Grandioso, vero? Uno spettacolo che esalta la vita. Ti dà un tale senso dello spazio e della storia! È pieno di rovine preistoriche qui. Magari, dopo che ti sarai sistemato, possiamo fare un salto fino al Canyon Frijoles a dare un’occhiata alle caverne. Ti interessano questo genere di cose?

— Non ne so molto — ammise Mondschein. — Però mi piacerebbe vederle.

— In che cosa sei specializzato?

— Nucleonica — rispose Mondschein.

— Io facevo l’antropologo prima di entrare nella Confraternita. Trascorrevo tutto il mio tempo libero giù ai pueblo. È bello, ogni tanto, fare un tuffo indietro nel passato. Soprattutto quaggiù, dove ogni giorno vedi nascere il futuro.

— Allora stanno davvero facendo progressi, eh?

Capodimonte annuì. — Procedono molto bene, a quanto mi dicono. Io non sono un capoccione. I capoccioni, quelli che sanno e che contano veramente, non lasciano quasi mai il centro. Ma da quello che mi è giunto all’orecchio stanno facendo grandi cose. Guarda laggiù fratello: quella che stiamo superando è la città di Santa Fe.

Mondschein guardò. Pittoresca, fu il primo aggettivo che gli venne in mente. La città era piccola, sia come estensione che per le dimensioni dei palazzi, che, a occhio, non superavano i tre o quattro piani di altezza. Perfino a quella distanza, Mondschein riusciva a riconoscere il tetro color bruno rossiccio dell’adobe.

— Me la immaginavo più grande — osservò.

— Zonizzazione. Monumenti storici e tutto il resto. L’hanno conservata com’era cent’anni fa. È proibito costruire nuovi edifici.

Mondschein aggrottò la fronte. — E il centro di ricerche, allora?

— Oh, be’, non è proprio a Santa Fe. Santa Fe è la città più vicina. Il centro si trova a una settantina di chilometri a nord. Vicino alla terra dei Picuri. Sai, laggiù ci sono ancora un sacco di indiani.

La strada cominciava a salire. La lacrima avanzò ondeggiando lungo strade collinose, mentre attorno i ginepri nodosi e contorti e i pini domestici cedevano il passo a boschi scuri di abete americano e di pino ponderoso. Mondschein non riusciva ancora a capacitarsi del fatto che entro pochi minuti sarebbe arrivato al centro genetico. Questa è la prova, ripeteva a se stesso. L’unico modo per ottenere qualcosa nella vita era quello di farsi sentire.

Lui aveva gridato tutta la sua ambizione. I suoi superiori lo avevano aspramente rimproverato… ma alla fine lo avevano inviato a Santa Fe.

Vivere per l’eternità! Mettere il proprio corpo nelle mani di scienziati che stavano imparando a sostituire le cellule, a rigenerare gli organi e a ridare giovinezza. Mondschein sapeva che cosa accadeva nei laboratori di Santa Fe. Naturalmente, prendere parte a ricerche ancora a livello sperimentale comportava dei rischi. E allora? Nell’ipotesi peggiore sarebbe morto, ma quello sarebbe stato comunque il suo destino, prima o poi. Se, invece, tutto avesse funzionato a dovere, sarebbe diventato uno degli eletti.

Un cancello si profilò dinanzi ai loro occhi. La luce del sole rimbalzava violentemente contro i battenti di metallo.

— Eccoci arrivati — annunciò Capodimonte.

Lentamente, il cancello si aprì.

— Ma non mi sottopongono all’esame di qualche esperiano prima di farmi entrare?

Capodimonte rise. — Fratello Mondschein, nell’ultimo quarto d’ora, la tua mente è già stata scandagliata minuziosamente. Se fosse emersa qualche ragione per rifiutare la tua ammissione, il cancello non si sarebbe aperto. Rilassati e benvenuto al centro. Ce l’hai fatta!