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— Dove alloggia? Non ci sono hotel qui.

— Sarò ospite dell’ambasciata marziana fino a quando non mi sarò stabilito da qualche parte.

— Lei non si stabilirà mai sul nostro pianeta — replicò il venusiano.

Martell non ribatté. Sapeva che anche un venusiano di bassa casta si considerava superiore a un terrestre e negare ciò, contraddicendolo, poteva venire interpretato come un gravissimo insulto. Martell non possedeva una spada con la quale misurarsi a duello. E, poiché di natura era un uomo privo di orgoglio, era disposto a ingoiare qualsiasi affronto in nome della missione che era venuto a compiere.

L’impiegato gli fece segno di passare. Martell raccattò il suo bagaglio e uscì dall’edificio. Un taxi, pensò. La città distava parecchi chilometri. Martell aveva bisogno di riposare e di conferire con l’ambasciatore marziano, il libero cittadino Nathalien Weiner. I marziani non condividevano i motivi che lo avevano spinto a trasferirsi su Venere, ma tolleravano la sua presenza. Non c’era un’Ambasciata Terrestre lì e nemmeno un consolato. I rapporti fra il pianeta madre e quella orgogliosa colonia si erano interrotti molto tempo prima.

In fondo al campo di atterraggio c’erano alcuni taxi in attesa. Martell si avviò verso il posteggio. Il terreno scricchiolava sotto i suoi piedi, come se fosse una fragile crosta. Il pianeta era immerso in una tetra oscurità. Non un solo raggio di sole riusciva a penetrare lo spesso strato di nubi, dense e grigie. Ma per fortuna, il suo corpo rispondeva bene.

Il porto spaziale aveva un’aria abbandonata. Non c’era nessuno in giro, eccetto i robot. Le uniche creature viventi erano i quattro responsabili della stazione, i diciannove venusiani e i dieci marziani appena sbarcati dall’astronave. Nessun altro. La densità degli abitanti del pianeta era molto bassa: Venere era popolata da poco più di tre milioni di individui, distribuiti in sette città molto estese. I venusiani erano uomini di frontiera, noti per la loro arroganza. Certo, loro potevano permettersi di essere alteri, considerando tutto lo spazio che avevano a disposizione. Che provassero a trascorrere qualche giorno sulla Terra, sovrappopolata com’era, e allora sì che avrebbero cambiato modo di pensare.

— Taxi! — chiamò Martell.

Nessuna delle robomacchine si staccò dalla fila. Anche i robot avevano la puzza sotto il naso su quel pianeta? si domandò il missionario. Oppure era lui a esprimersi male nella loro lingua? Chiamò di nuovo, senza ottenere risposta.

Poi capì. Dalla stazione stavano uscendo i venusiani: naturalmente, loro avevano la precedenza. Martell li osservò. A differenza del doganiere, quelli erano uomini di casta elevata. Avanzavano con incedere arrogante, da gradassi, e Martell sapeva che, se solo avesse osato tagliare loro la strada, l’avrebbero messo in ginocchio.

Provò un vago disprezzo nei loro confronti. Che cos’erano, dopo tutto, se non samurai di pelle blu, anacronistici laird di frontiera, principotti infantili, protagonisti di una fantasia medievale? Chi è sicuro di sé non ha bisogno di camminare con aria tracotante, né di ispirarsi a elaborati codici di cavalleria. Se uno li considerava per ciò che erano veramente, delle teste calde, degli insicuri, anziché esseri superiori, poteva vincere il sentimento di riverente timore che suscitavano.

Ma mai completamente. Perché il loro incedere era molto solenne mentre attraversavano il campo. Non era una semplice differenza di costumi a discriminare i venusiani di casta elevata da quelli di casta bassa. Era una differenza biologica. I primi discendevano dalle famiglie di pionieri, che avevano fondato la colonia, e la loro diversità, sia dal punto di vista fisico che psichico rispetto ai terrestri, era molto più marcata di quella dei venusiani di nascita più recente. Inizialmente, i processi di manipolazione genetica erano alquanto grossolani e l’aspetto quasi mostruoso dei coloni della prima generazione ne era la dimostrazione. Alti più di due metri, con la pelle blu, trafitta da pori giganteschi, e grappoli di branchie rosse e pendule attorno al collo, i loro discendenti, erano vere e proprie creature aliene, che ricordavano soltanto vagamente i loro trisavoli terrestri. In seguito, era stato possibile adattare gli uomini alla vita su Venere senza modificare in modo così radicale il modello umano di base. I venusiani di entrambe le caste, in quanto prodotti della manipolazione del plasma germinale, si erano moltiplicati trasmettendo ai loro figli il loro nuovo codice genetico. Tutti, indistintamente, possedevano un senso dell’onore esagerato e nutrivano un profondo disprezzo nei confronti della Terra e dei suoi abitanti. Ma il potere era nelle mani dei rampolli della progenie più antica, che faceva della propria diversità virtù, e del pianeta il proprio campo di gioco.

Martell osservò i venusiani mentre, con sussiego, salivano a bordo dei veicoli in attesa e si allontanavano. Non rimase nemmeno un taxi. Sul lato opposto dello scalo, i dieci passeggeri marziani, si stiparono tutti su un’unica vettura e scomparvero. Martell ritornò nella stazione. L’impiegato venusiano lo guardò torvo.

— Quando pensa che potrò prendere un taxi per andare in città? — gli domandò Martell.

— Forse un altro giorno. Per oggi non ritornano.

— Allora voglio telefonare all’Ambasciata Marziana. Manderanno una macchina a prendermi.

— Ne è così sicuro? Perché dovrebbero prendersi un simile disturbo?

— Forse ha ragione — replicò Martell con voce pacata. — Sarà meglio che mi avvii a piedi.

Lo sguardo che ricevette dal venusiano valse il suo gesto. L’uomo lo fissò con un misto di sorpresa e di indignazione. E, forse, anche con ammirazione, sfumata dalla condiscendente consapevolezza che quel terrestre doveva essere pazzo. Martell uscì dalla stazione e si incamminò lungo lo stretto nastro di strada che conduceva in città.

due

Fu una lunga camminata solitaria. La superstrada era costeggiata da una fitta foresta, nella quale non si intravvedeva nemmeno il più vago profilo di una casa. Né Martell incontrò o fu superato da alcun veicolo. Gli alberi, scuri e spaventosi per il luccichio bluastro delle foglie, che brillavano, come lame di coltello, nella tenue luce soffusa, sovrastavano la strada con le loro gigantesche chiome. Di tanto in tanto, dal folto del bosco provenivano fruscii sinistri, come di bestie che, passando, urtassero qualche pianta. Però, per quanto aguzzasse la vista, Martell non riusciva a vedere niente. Il missionario procedeva senza sosta. Quanti chilometri aveva percorso? Quindici? Venti? Non importava. Era pronto a camminare per sempre, se necessario. Aveva la forza per farlo.

Intanto, nella sua mente si rincorrevano le idee e i progetti. Avrebbe creato un piccolo tempio, avrebbe predicato la parola di Vorst e illustrato ai venusiani ciò che egli prometteva: la vita eterna e la conquista delle stelle. Forse i venusiani avrebbero minacciato di ucciderlo, così come avevano ucciso gli altri missionari, ma lui era disposto ad affrontare anche la morte, se necessario, purché altri potessero conquistare le stelle. La sua fede era incrollabile. Prima della sua partenza, i massimi esponenti della Confraternita erano andati ad augurargli buona fortuna: Reynolds Kirby, il Coordinatore dell’Emisfero, gli aveva stretto la mano; poi, con sua grande sorpresa, perfino Noel Vorst in persona, leggendario fondatore dell’ordine, che già da qualche anno aveva superato la veneranda soglia dei cento anni, si era fatto avanti per sussurrargli con voce impercettibile, "Sono sicuro che la tua missione darà i suoi frutti, fratello Martell".

Al ricordo di quel momento glorioso, Martell si sentì formicolare il petto per l’emozione.

Adesso procedeva spedito, rinfrancato dalla vista di alcune abitazioni lontane dalla strada. Questo significava che era arrivato alla periferia della città. In quel mondo di pionieri, i coloni non costruivano le case vicine, ma abitavano in costruzioni isolate, sparpagliate nella regione che circondava i centri amministrativi più importanti. Gli alti muri che attorniavano le prime case che vide, non lo spaventarono: i venusiani erano gente scontrosa, che potendo, avrebbe cinto di mura l’intero pianeta. Ma fra poco sarebbe arrivato in città e allora…