— Cantami la canzone — lo esortò Elwhit.
— Nel nome dello spettro, del quanto e del santo angstrom…
La porta del tempio si spalancò ed entrarono tre venusiani: il capo della polizia e due suoi aiutanti. Il ragazzo fece un rapido dietro front e fuggì a gambe levate attraverso l’uscita posteriore.
— Prendetelo! — ruggì il capo della polizia.
Martell protestò urlando. Ma non servì a nulla I due poliziotti rincorsero Elwhit in cortile. Il capo della polizia e Martell li seguirono a ruota.
I due agenti lo braccarono. All’improvviso, il più grasso dei due volò in aria, agitando violentemente le gambe, e precipitò verso la zona di sottobosco in cui cresceva il Fungo Malevolo. Cadde pesantemente. Si udì un grugnito soffocato. Il Fungo Malevolo, Martell l’aveva appreso osservandolo, si muoveva rapidamente. Quella muffa carnivora divorava tutto ciò che era organico; scattando con una velocità spaventosa, i suoi filamenti appiccicosi avviluppavano la preda, condannandola a morte. Il poliziotto rimase intrappolato in un groviglio di lacci, che incominciarono a emettere enzimi adesivi. Dibattersi serviva soltanto a peggiorare la situazione. L’uomo tirò e scalciò, ma i filamenti del fungo si moltiplicavano, finché ebbero la meglio su di lui e lo immobilizzarono a terra. Adesso toccava agli enzimi digestivi entrare in azione. Un odore dolce, nauseante si sprigionò dalla pianta.
Martell non ebbe il tempo di seguire il processo di dissoluzione. Il poliziotto, interamente coperto dalla secrezione vischiosa, stava per morire e il suo collega, il viso quasi nero per la rabbia e la paura, aveva tirato fuori un coltello e lo aveva puntato contro il ragazzo.
Ma Elwhit glielo fece cadere di mano. Poi, la fronte imperlata di sudore, i muscoli della mascella contratti per lo sforzo, fece appello a tutte le sue energie per scagliare anche il secondo poliziotto nelle fauci del fungo; ma l’uomo, pur inclinandosi visibilmente all’indietro, riuscì a resistere alla spinta telecinetica. Martell rimase a fissare la scena paralizzato. Il capo della polizia, invece, si precipitò in avanti, brandendo il coltello.
— Elwhit! — urlò il missionario.
Ma nemmeno un telecinetico era in grado di difendersi da una coltellata alla schiena. La lama affondò di parecchi centimetri. Il ragazzo cadde a terra. Nel medesimo istante, cessando la pressione, il poliziotto scivolò e cadde faccia a terra. Il capo della polizia afferrò il ragazzo ferito e straziato dal dolore, e lo gettò nel Fungo Malevolo. Elwhit cadde accanto alla massa molle del poliziotto morto e Martell vide con orrore i filamenti grondanti bava chiudersi sopra di lui. Un moto di nausea gli serrò la gola. Dovette far ricorso alle tecniche vorsteriane di auto-controllo per poter recuperare la padronanza.
A quel punto il capo della polizia e l’agente avevano ritrovato la calma. Senza quasi degnarsi di guardare i due cadaveri che si stavano disintegrando, afferrarono il missionario e lo trascinarono all’interno del tempio.
— Avete ucciso un ragazzo — urlò Martell, liberandosi dalla stretta. — Lo avete pugnalato alla schiena! È questo l’onore di cui andate tanto fieri?
— Sistemerò la questione davanti al nostro tribunale, prete. Quel ragazzo era un assassino. Ed era anche invasato da dottrine pericolose. Lo sapeva che stavamo per procedere contro di lei e venendo qui ha commesso un reato. Perché non ha ancora spento quel reattore?
Martell cercò invano le parole. Avrebbe voluto rispondergli che non intendeva accettare la sconfitta, che avrebbe opposto resistenza, che era deciso a lottare fino al martirio. Ma la brutale uccisione dell’unico venusiano che era riuscito a convertire aveva annientato la sua volontà.
— Spegnerò il reattore — disse con voce cupa.
— Adesso.
Martell salì sull’altare e lo disattivò. Il capo della polizia e il suo aiutante lo seguirono con lo sguardo e sorrisero, pregustando il momento in cui la luce si sarebbe spenta. L’agente disse: — Il suo tempio non è più un vero tempio con il reattore spento, non è così, prete?
— No — rispose Martell. — Penso che chiuderò anche la chiesa.
— Non è durato molto.
— No.
— Ma guardalo, con quelle branchie penzoloni! — lo derise il capo della polizia. — Si è conciato in quel modo per assomigliarci. Ma chi credeva di imbrogliare? Gliela faremo vedere noi.
Si fecero avanti per aggredirlo. Erano uomini forti e poderosi. Martell era disarmato ma non aveva paura. Sapeva come difendersi. Incombevano su di lui come i mostri di un incubo: figure grottescamente disumane, con gli occhi scintillanti ridotti a due fessure, le palpebre interne che scivolavano su e giù nervosamente, le piccole narici frementi, le branchie tremanti. Martell dovette farsi violenza per ricordarsi che anche lui, ora, era un mostro come loro: un terrestre modificato. Un loro fratello.
— Facciamogli una bella festa d’addio! — propose l’agente.
— Siete stati fin troppo chiari — disse Martell. — Chiuderò il tempio. Avete bisogno di aggredire anche me? Di che cosa avete paura? Le idee rappresentano una minaccia così grave per voi?
Un pugno lo raggiunse alla bocca dello stomaco. Martell vacillò, boccheggiando, ma si sforzò di mantenere la calma. Una mano calò di spigolo in direzione della sua gola. Martell la intercettò, la allontanò e afferrò il polso. Si verificò un momentaneo scambio di ioni e l’agente cadde, imprecando.
— Attento. È elettrico!
— Non ho intenzione di farvi del male — replicò pacatamente Martell. — Lasciatemi andare in pace.
Le mani corsero ai pugnali. Martell rimase immobile. A poco a poco, la tensione si allentò. I venusiani rincularono verso l’uscita, apparentemente disposti a lasciar perdere la questione. Del resto avevano ottenuto quello che volevano, cioè di chiudere la missione vorsteriana, e adesso davano l’impressione di avere qualche scrupolo nell’affrontare il missionario sconfitto.
— Vattene dalla città, terrestre — grugnì il capo della polizia. — Torna al tuo paese e non venire più a scocciare da queste parti con la tua falsa religione. Noi non ne vogliamo sapere. Vattene, hai capito?
cinque
Non esisteva una tenebra impenetrabile come il cielo notturno di Venere, pensò Martell. Era come se la volta celeste fosse rivestita da uno strato di lana. Non una stella, non il baluginio di un raggio di luna riusciva a penetrare quell’arcata nera. Però, ogni tanto, balenava qualche luce intermittente: era quella emanata da enormi uccelli predatori, diabolicamente luminosi, che sfrecciavano nell’oscurità, aggredendo le loro vittime quando meno se lo aspettavano. Dalla veranda posteriore del tempio armonista, Martell li osservava librarsi a non più di trenta metri d’altezza, abbastanza vicini da permettergli di distinguere la fila di artigli adunchi che ornavano i bordi di attacco delle ali ricurve.
— Qui gli uccelli hanno anche i denti — osservò Christopher Mondschein.
— E le rane le corna — aggiunse Martell. — Perché le creature di questo pianeta sono così perverse?
Mondschein gli rispose con una risata chioccia. — Lo domandi a Darwin, amico mio. È andata così. Dunque ha fatto la conoscenza delle rane venusiane? Maledette bestiacce. E ha visto una ruota. Ma ci sono anche pesci molto simpatici, sa. E piante carnivore. In compenso su Venere non ci sono insetti. Ci pensa? E nessun artropode terrestre. Naturalmente ne esistono deliziose varietà acquatiche: una specie di scorpione più grande di un uomo, una specie di aragosta con tenaglie gigantesche… Ma tanto qui nessuno va al mare.
— Il perché mi sembra evidente — disse Martell. Un altro uccello luminescente scese in picchiata, sfiorò i rami e sfrecciò via. Dalla sua testa piatta sporgeva un organo carnoso, grande come un melone e luminoso, che oscillava in cima a un robusto stelo.