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— Dunque, alla fine ha deciso di diventare uno di noi?

— Proprio così.

— Lo fa per infiltrarsi nella nostra organizzazione, Martell? Per spiarci?

Le guance del giovane missionario si colorirono. I chirurghi di Santa Fe non lo avevano privato della reazione dell’arrossamento, anche se adesso, in quelle circostanze anziché imporporarsi, la sua pelle assumeva un triste colore grigiastro.

— Come si spiegherebbe, altrimenti, questa sua repentina decisione? La settimana scorsa ha rifiutato con sdegno la mia offerta.

— La settimana scorsa, appunto. Adesso il mio tempio è chiuso e ho visto uccidere sotto i miei occhi un ragazzo che si fidava di me. Non ho nessuna intenzione di assistere ad altri omicidi.

— Allora riconosce di essere responsabile della sua morte…

— Riconosco di avergli permesso di mettere a repentaglio la sua vita — precisò Martell.

— Noi la avevamo avvertita.

— Ma io non avevo idea della crudeltà delle forze che mi avrebbero colpito. Adesso lo so. Non posso farcela da solo. Mi permetta di unirmi a voi, Mondschein.

— Il suo piano è fin troppo chiaro, Martell. Quando è arrivato fremeva dall’impazienza di diventare martire. Ci ha rinunciato troppo presto. È evidente che adesso vuole entrare nel nostro movimento per poterci spiare. Le conversioni non sono mai così semplici e lei non è uomo da lasciarsi persuadere tanto facilmente. Io sospetto di lei, fratello.

— Lo dice perché mi sta leggendo la mente?

— Oh, no. Io non posseggo neanche un’oncia di poteri esperiani. Ma ho buon senso. E poi ho anch’io una certa esperienza di spionaggio. Lei è qui per ficcanasare.

Martell osservò il profilo luminoso di un uccello che si stagliava contro lo sfondo scuro. — Quindi lei rifiuta di accogliermi?

— Posso darle ospitalità per questa notte. Ma domani mattina dovrà andarsene. Mi dispiace, Martell.

Non c’era modo di persuadere l’armonista a ritornare sulla propria decisione. Martell non era sorpreso, né particolarmente dispiaciuto; aveva dubitato fin dall’inizio della validità di quella tattica e perciò si aspettava il rifiuto di Mondschein. Forse, se avesse atteso sei mesi prima di avanzare quella richiesta, la sua risposta sarebbe stata diversa.

Rimase distaccato mentre il piccolo gruppo di armonisti celebrava i vespri. Non si chiamavano "vespri", naturalmente ma Martell non poteva fare a meno di identificare il culto degli eretici con la vecchia religione cattolica. In quella missione erano presenti tre ex-terrestri. La voce dei due subordinati si unì a quella di Mondschein che aveva intonato un inno quasi offensivo nella sua religiosità ma, al tempo stesso, vagamente commovente. Alla funzione partecipavano anche sette venusiani di casta inferiore. Poi, insieme ai tre armonisti, Martell consumò una cena a base di una carne sconosciuta e di un vino aspro. Sembravano a loro agio nonostante la sua presenza, quasi compiaciuti. L’uno, Brandlaugh, era magro e apparentemente fragile, forse a causa delle braccia, troppo lunghe, e dei tratti del volto così schietti da apparire quasi comici. L’altro, Lazzaro, era di corporatura robusta e atletica, ma aveva gli occhi stranamente inespressivi e la pelle del viso come una maschera sugli zigomi larghi. Era lui che era andato a fargli visita nel suo disgraziatissimo tempio. Martell sospettava che Lazzaro fosse un esperiano. Il suo cognome suscitò la sua curiosità.

— Sei parente di… Davide Lazzaro? — gli domandò.

— Sono suo bisnipote. Io non l’ho mai conosciuto.

— A quanto pare nessuno l’ha conosciuto — replicò Martell. — A volte mi sorge il dubbio che l’illustre fondatore del vostro ordine sia una creatura leggendaria.

I tre armonisti di irrigidirono. Fu Mondschein a parlare per primo. — Una volta incontrai un confratello che l’aveva conosciuto. Dicono che fosse un uomo che incuteva molta soggezione: alto e autoritario, con un’aria regale.

— Come Vorst — osservò Martell.

— Molto simile a Vorst. Avevano entrambi il carisma naturale del comando — aggiunse Mondschein. Poi si alzò. — Buona notte, fratelli.

Martell rimase solo con Bradlaugh e Lazzaro. Nella stanza calò un silenzio imbarazzante. Dopo qualche minuto, Bradlaugh si alzò a sua volta e, con tono freddo, disse: — Le mostro la sua stanza.

La camera era piccola; l’unico mobilio era costituito da una semplice branda. Ma Martell era contento. Alle pareti vi erano meno simboli religiosi del previsto. Era chiaramente un luogo deputato soltanto al risposo notturno. Martell recitò rapidamente le sue preghiere e chiuse gli occhi. Dopo alcuni minuti sopraggiunse il sonno: una sottile crosta di torpore sopra il magma incandescente della sua anima.

Poi, un improvviso frastuono trapassò quella crosta.

Risate, voci aspre che rimbombavano. Un forte colpo si abbatté contro le mura del tempio. Martell si svegliò in tempo per udire una voce impastata che urlava: — Dateci il vorsteriano!

Si drizzò a sedere. Qualcuno entrò nella stanza: riconobbe la figura di Mondschein. — Sono ubriachi — bisbigliò l’armonista. — Hanno fatto baldoria per tutta la notte e adesso sono venuti qui per attaccare briga.

— Vogliamo il vorsteriano! — ruggì un’altra voce.

Martell guardò dalla finestra. Dapprima non vide niente; poi, alla luce delle numerose cellule luminose, infisse nelle mura esterne del tempio, individuò sette o otto figure titaniche, che, con passo incerto, misuravano il cortile.

— Ma sono venusiani di casta nobile!

— Uno dei nostri esperiani ci ha avvisato un’ora fa — disse Mondschein. — Doveva succedere, prima o poi. Adesso andrò fuori a cercare di calmarli.

— Ti uccideranno.

— Non è me che vogliono — rispose Mondschein e se ne andò.

Martell lo vide emergere dall’edificio. Al confronto dei venusiani sembrava un nano. Quando li vide stringersi attorno a lui, Martell fu certo che avessero intenzione di aggredirlo. Però esitavano. Mondschein li stava affrontando con decisione. Ma a quella distanza, Martell non riusciva a capire che cosa si stessero dicendo. Forse parlamentavano. I venusiani erano armati e barcollavano. Alcuni uccelli sfrecciarono nel cielo scuro, illuminando per alcuni istanti i volti degli indigeni: alieni, distorti, spaventosi. Avevano le guance affilate come lame di coltello, gli occhi ridotti a due fessure. Mondschein, che in quel momento voltava le spalle alla finestra, stava gesticolando: senza dubbio stava parlando in modo concitato e grave.

Uno dei venusiani raccolse un macigno di non meno di dieci chili e lo scagliò contro le mura candide della missione. Martell si morse una nocca. Gli giungevano alcuni frammenti di conversazione, parole orribili: — Consegnatecelo… Potremmo prendervi tutti quanti… È ora che vi schiacciamo tutti come rospi.

Mondschein aveva le mani alzate adesso. Li stava implorando, si domandò Martell, oppure stava semplicemente cercando di tenerli a bada? Gli sovvenne l’idea di pregare. Ma subito dopo la giudicò un’idea vana. I membri della Confraternita non pregavano per ottenere un compenso immediato. Vivevano osservando gli insegnamenti di Vorst, servivano la causa, e solo allora ricevevano la meritata ricompensa. Così, indossò la veste e uscì.

Non si era mai avvicinato tanto a dei venusiani di casta nobile. Emanavano un odore disgustoso, che gli ricordò quello della ruota. Quando lo videro uscire dal tempio, i venusiani lo fissarono increduli.

— Che cosa vogliono? — domandò.

Mondschein lo fissò a bocca aperta. — Rientri immediatamente! Sto trattando! — urlò non appena si riebbe dallo stupore.

Uno dei venusiani sguainò la spada. Poi la conficcò nel terreno soffice, vi si appoggiò sopra e disse: — Eccolo lì il nostro pretonzolo! Che cosa aspettiamo?

Disperato, Mondschien disse: — Non sarebbe dovuto uscire. Forse avevo una possibilità di riuscire a placarli.