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Incominciarono da Vorst, che doveva imparare ad accettare come profeta, così come la religione cristiana rispettava Mosè e l’Isiam onorava Gesù. Ma, naturalmente, c’era un altro dono divino, rappresentato da Davide Lazzaro. Negli scritti vorsteriani non compariva mai il suo nome. Martell sapeva della sua esistenza per aver studiato la storia della Confraternita della Radianza Immanente, in cui si accennava al profeta armonista come a una figura minore, uno dei primi seguaci di Vorst, divenuto, successivamente, uno dei primi dissidenti.

Ma Vorst era ancora vivo, e, lo riconoscevano entrambi gli ordini religiosi, sarebbe vissuto in eterno, in sintonia con il cosmo: il Primo Immortale. Lazzaro, invece, era morto come martire, campione di onestà crudelmente tradito e assassinato dai Vorsteriani all’apice del loro trionfo sulla Terra.

Della triste vicenda si narrava nel Libro di Lazzaro. Martell si sentiva contorcere le budella mentre leggeva:

Lazzaro era leale e non conosceva l’inganno. Ma gli uomini, che erano duri di cuore, lo aggredirono nottetempo e lo trucidarono. Poi gettarono il suo corpo nel convertitore, affinché di lui non rimanesse neppure una molecola. E quando Vorst apprese ciò che era accaduto, pianse e disse: - Avrei preferito che aveste ucciso me, perché così avete assicurato a Lazzaro un’immortalità che non potrà mai perdere…

Nelle scritture armoniste, Martell non trovò una sola parola a discredito di Vorst. Perfino l’assassinio di Lazzaro veniva considerata opera di alcuni seguaci esaltati, che avevano agito a sua insaputa. Aleggiava, invece, in ogni pagina, la speranza di vedere ricomposta un giorno la frattura fra le due fedi, anche se era specificato che gli armonisti avrebbero dovuto accettare la riunificazione soltanto a una condizione: che trattassero da posizione di forza e che la fusione dei due movimenti avvenisse su un piano di assoluta uguaglianza.

Soltanto pochi mesi prima, Martell avrebbe giudicato assurde quelle pretese. Sulla Terra gli armonisti rappresentavano un movimento da quattro soldi, che continuava a perdere seguaci ogni anno. Adesso che viveva fra di loro, se non era proprio uno di loro, si rendeva conto di aver terribilmente sottovalutato il loro potere. Avevano il dominio su Venere. I venusiani di casta nobile potevano darsi tutte le arie che volevano, ma non erano più i padroni del pianeta. Per contro, i venusiani di estrazione più bassa, fra i quali si contavano potenti esperiani — telecinetici, nientemeno! — avevano rimesso il loro destino nelle mani degli armonisti.

Martell lavorò. Studiò. Ascoltò. E nel suo cuore si insinuò la paura.

Arrivò la stagione delle tempeste. Dalla perenne coltre di nuvole esplodevano lingue di fuoco che incendiavano tutto il pianeta. Torrenti di pioggia amara battevano le pianure. Alberi alti centocinquanta metri venivano sradicati dal vento e scagliati lontano. Ogni tanto, qualche venusiano di alta casta si presentava al tempio per deridere o minacciare i vorsteriani: mentre fuori infuriava il temporale, urlavano le loro provocazioni, e, all’interno dell’edificio, i ragazzi di bassa casta, aspettavano, sorridendo, di difendere i loro insegnanti. Una volta, quando tre venusiani di alto lignaggio, tentarono di irrompere nel tempio, li mandarono a rotolare a venti metri dall’ingresso. — Un fulmine — si dissero l’un l’altro. — Siamo fortunati a essere vivi.

Con la primavera giunse il caldo. Martell lavorava nei campi a torso nudo, insieme a Bradlaugh e a Lazzaro. Ancora non insegnava. Ormai conosceva a menadito le scritture armoniste, ma i principi della nuova fede restavano qualcosa di esterno a lui, come se, bloccati da un’insormontabile barriera di scetticismo, non riuscissero a penetrare nel profondo del suo animo.

Poi, un giorno torrido, in cui il sudore scorreva a fiumi dai pori della pelle modificata dei quattro monaci, fratello Leon Bradlaugh si unì alla beata compagine dei martiri. Accadde tutto rapidamente. Stavano lavorando nei campi quando, all’improvviso, si era stagliata un’ombra sopra di loro e, nella mente di Martell, una voce muta aveva gridato: — Attento!

Rimase immobile. Ma non era scritto che lui dovesse morire quel giorno. Dal cielo piombò qualcosa, qualcosa di pesante, munita di ali coriacee: Martell vide un becco lungo un metro trafiggere il petto di Bradlaugh, dal quale sprizzò una fontana di sangue color del rame. Bradlaugh giacque immobile sul terreno, e il possente laniero si accanì su lui: aveva ritratto il becco, ma a Martell giungeva il rumore straziante della carne lacerata.

Quando l’uccello scomparve, diedero l’estremo saluto a ciò che restava del corpo di Leon. Fu fratello Christopher Mondschein a celebrare la funzione, terminata la quale chiamò a sé Martell.

— Adesso siamo rimasti in tre — disse. — Sei disposto ad assumerti l’onere dell’insegnamento, fratello Martell?

— Io non sono uno di voi.

— Indossi la veste verde. Conosci la nostra fede. Ti consideri ancora un vorsteriano, fratello?

— Io… io non so che cosa sono — rispose Martell. — Ho bisogno di rifletterci.

— Fammi avere presto la tua risposta. C’è molto da fare qui.

Martell ancora non sapeva che l’indomani avrebbe finalmente capito chi era. Il giorno dopo il funerale di Bradlaugh arrivò la nave passeggeri che, ogni tre settimane, collegava Marte a Venere. Martell non lo sapeva; lo apprese soltanto quando Mondschein andò da lui e gli disse: — Prendi la macchina e portati dietro un ragazzo. Presto! C’è un uomo che ha bisogno di aiuto!

Martell non fece domande. Evidentemente, la notizia si era diffusa a catena fra gli esperiani e il suo compito era semplicemente quello di obbedire. Salì a bordo della macchina. Uno dei piccoli accoliti venusiani scivolò sul sedile accanto a lui.

— Da che parte? — domandò Martell.

Il ragazzo gli indicò la direzione con la mano. Martell avviò la macchina e si diresse a gran velocità verso l’aeroporto. Avevano percorso all’incirca quattro chilometri quando, con un grugnito, il ragazzo bloccò l’auto.

Sul ciglio della strada, la schiena rivolta verso il tronco di un possente albero, c’era un uomo, avvolto nella veste azzurra dei vorsteriani. Le sue due valigie giacevano aperte in mezzo alla carreggiata: una bestia, con una lama tagliente sul dorso e zanne simili a quelle di un cinghiale, grufolava con il muso piatto in mezzo alle sue cose, mentre il suo compagno caricava il nuovo arrivato. Il quale, nell’impossibilità di fuggire cercava di tenere lontano l’animale con calci e frustate.

Il ragazzo balzò giù dalla macchina e, senza mostrare sforzo alcuno, mandò i due quadrupedi a sbattere contro gli alberi dalla parte opposta della strada. Le bestie crollarono al suolo, stordite, ma dopo alcuni secondi si raddrizzarono sulle zampe, decise a ritornare all’attacco. Allora il ragazzo le sollevò in aria e le fece scontrare fra di loro, testa contro testa. Quella volta, quando piombarono a terra, fuggirono di gran carriera verso la boscaglia.

— A quanto pare Venere dà sempre così il benvenuto ai nuovi arrivati — disse Martell. — Il mio comitato d’accoglienza fu una creatura chiamata ruota, che le auguro di non incontrare mai. Mi avrebbe fatto a fettine se un ragazzo venusiano non fosse stato così gentile da metterla fuori combattimento. È un missionario?